La meditazione seduta
Scritto da -La pratica della meditazione era largamente diffusa nell’Asia orientale da tempi immemori. Era praticata dagli asceti dell’India prebuddhista, dagli yogin e in varie tradizioni spirituali e religiose. Il Buddha storico la fece propria perpetuando una tradizione preesistente e, di fatto, l’immagine che si ha soprattutto in Occidente è quella del Buddha storico seduto sotto l’albero di ficus religiosa mentre vede la stella del mattino, segno dell’avvenuto risveglio.
Dare una generica e onnicomprensiva definizione di ‘meditazione’ è quasi impossibile di fronte alla grande varietà che essa assume nelle diverse tradizioni culturali e religiose in cui viene praticata. Il termine stesso con cui, nella maggior parte delle lingue occidentali, viene conosciuta — una parola di origine latina — ‘meditazione’ ha una connotazione fortemente ancorata alle culture dell’Occidente e delle sue religioni, ma va notato che in tempi recenti si parla spesso di ‘pratica contemplativa’ per indicare quelle forme di pratica che comportano l’acquietamento psicofisico e la concentrazione mentale. Il termine sanscrito che più si avvicina a ‘pratica contemplativa’ è bhilvana”, che letteralmente significa ‘sviluppo’ o ‘coltivazione, soprattutto in senso spirituale, e quindi si riferisce alla pratica della coltivazione spirituale, o anche alla contemplazione, in particolare quella messa in atto nella meditazione,1 mentre alla meditazione ci si riferisce normalmente con il termine sanscrito dhyāna (o jhāna in pāli).
E tuttavia ‘meditazione’ è un termine che si è andato affermando per indicare collettivamente quelle tecniche e pratiche, soprattutto presenti in Oriente, che, come dice Halvor Eifring, comportano “un tipo di riflessione che trascende il pensiero puramente razionale” e che poco più avanti definisce come “una tecnica basata sull’attenzione per la trasformazione interiore”2 in questo modo distinguendo tra la tecnica e la pratica, o lo scopo, della meditazione. Detto diversamente, la tecnica consiste nella focalizzazione dell’attenzione per interrompere la dispersione causata dal flusso continuo del pensiero e lo scopo della pratica è quello di giungere a una trasformazione interiore, cioè un perfezionamento spirituale. Ma questa definizione della tecnica è parziale, come lo stesso Eifring ammette, in quanto la focalizzazione dell’attenzione può essere su un oggetto specifico, come la respirazione, su una parte del corpo o su immagini di visualizzazione; oppure può anche essere una sorta di attenzione aperta senza un oggetto specifico, ma volta a ottenere una disposizione di accettazione non ostacolante del flusso di coscienza che si presenta di volta in volta. Un’accettazione che non comporta né attaccamento né permanenza, ma un libero lasciar andare e venire senza coinvolgimento.
Tuttavia tra le varie forme di meditazione che possono essere elencate,3 qui interessano quelle — il plurale è d’obbligo — che riguardano la pratica buddhista della meditazione. Di nuovo, dare una generica e onnicomprensiva (e sbrigativa) definizione di ‘meditazione’ come intesa nelle varie discipline spirituali buddhiste dell’Estremo Oriente, è difficile: potremmo dire che generalmente si tratta di una pratica volta a ottenere un acquietamento (ānxīn, 安心) o un distacco delle pulsioni interiori coinvolgendo sia il corpo che la mente.

Calligrafia di Bruno Riva (shodo.it)
Ponendo il corpo in uno stato di immobilità e focalizzando l’attenzione su visualizzazioni di vario tipo, o sul momento presente, si favorisce l’insorgere anche a livello mentale ed emotivo di una situazione di quiete e di distacco, allo scopo di spegnere o attenuare la continua e incontrollabile agitazione interiore. Normalmente, quindi, la meditazione è utilizzata per raggiungere una maggiore padronanza delle attività mentali e psichiche, e per sondare la propria interiorità al di sotto dello strato cosciente che guida la nostra attività quotidiana, per lo meno per una grande parte. Dhyāna, per dirla con una parola sanscrita, ossia la pratica meditativa, è acquietamento, ma anche introspezione di se stessi, e diventa samādhi quando lo stato di assorbimento meditativo diventa profondo e il sé del meditante si identifica con il tutto, nel senso che si diluisce e i suoi confini si estendono a comprendere ogni fenomeno.
Nella dottrina buddhista si insegna che la sofferenza insita nella vita quotidiana è causata dalla pulsione attrattiva che il nostro io esercita continuamente nei confronti dei fenomeni. I cosiddetti Tre Veleni sono, infatti: brama (貪), ignoranza (癡) e ira (瞋). Semplificando, la brama incontrollata che acceca è accompagnata dall’ira che sorge per il non soddisfacimento dei desideri e l’ignoranza è la non conoscenza della vera realtà dei fenomeni, che è illusoria e quindi non merita di essere desiderata.

brama 貪 - ignoranza 癡 - ira 瞋
Calligrafie di Bruno Riva (shodo.it)
Solo mantenendo un sereno distacco equanime dalle cose, se ne comprende la fondamentale insostanzialità e si è in grado di non farsene coinvolgere: è una serena e consapevole presa di distanza, ottenuta con la comprensione che all’origine dei fenomeni vi è la vacuità. Per questo nel Wùxìng lùn (悟性論, “Trattato della natura dell’illuminazione”) del Chán del periodo Tang, si dice: “Distaccarsi da tutte le apparenze si chiama tutti i Buddha”.4 Questa frase dice chiaramente e saggiamente che il distacco non è dai fenomeni, ma dalle apparenze dei fenomeni, cioè dall’immagine che il nostro io proietta su di essi, dandone una rappresentazione illusoria. È nei confronti di questa visione illusoria che si crea l’attaccamento, la brama e il resto dei Tre Veleni.
In apertura dello stesso testo si trova l’affermazione:
Dunque, l’estinzione (cioè il nirvāna) va considerata come l’essenza della Via, e il distacco dalle apparenze va considerato come lo scopo della pratica. Quindi il sūtra dice: ‘L’estinzione è l’illuminazione poiché estingue tutte le apparenze e il Buddha è la consapevolezza’.5
Ciò significa che la pratica ha lo scopo di insegnarci a raggiungere il distacco dalle apparenze, e questo è il percorso che porta alla buddhità.
Dunque qui vediamo il significato della pratica della meditazione: quello di condurci alla consapevolezza della vera natura delle cose e di conseguenza all’acquietamento della brama e infine all’equanimità, eliminando così la radice dei Tre Veleni.
Il percorso della pratica meditativa consiste in un progressivo abbandono (distacco ed estinzione) delle cose del mondo, e ciò avviene con il distacco dal proprio io, poiché è quella la vera causa della sofferenza: l’attaccamento al proprio io, ovviamente illusorio. Per questo il buddhismo pone a fondamento del suo insegnamento la dottrina dell’anattā, spesso sbrigativamente tradotta come la dottrina del ‘non io’. In realtà anattā è una delle caratteristiche dell’esistenza, per cui tutto ciò che esiste non ha un’esistenza individuale e solida, ma condizionata e sempre mutevole. In altre parole, quello che consideriamo solido e immutabile in realtà è il contrario: temporaneo ed evanescente. In questo contesto, la pratica ha il compito di far crescere dentro di sé una nuova consapevolezza che man mano si sviluppa fino a sfondare il muro dell’ignoranza. Infatti, nella meditazione, l’acquietamento della mente consiste in un’osservazione distaccata e senza coinvolgimento della realtà e di se stessi: se la visione è obiettiva e neutra, allora la visione si fa chiara. Nel momento in cui l’io — o meglio, l’illusione dell’io — non viene più coinvolto, l’egocentrismo che ci porta al pensiero discriminante e dualista non ha più alcun senso, e cessa. Allora si spengono le pulsioni, e le cose non esercitano più alcuna attrattiva, ma sono viste per quello che sono, nella dimensione di anattā. A quel punto, il testo chán del periodo Tang, Wúxīnlùn (無心論, “Trattato della non-mente”), dice: “Mischiandosi alle passioni, non si sporca”.6 Questo ci fa comprendere che l’attaccamento e la confusione interiore non sono dovute alle cose, ma alla radice dove si trova l’insorgenza della causa: la falsa visione che l’io produce. Quando avviene tale comprensione, nulla più può essere causa di contaminazione.
Come vedremo avanti in dettaglio, la meditazione impiega tecniche diverse per svelare l’inganno dell’attaccamento, fondamentalmente in due modi diversi: con un’azione di contrasto attraverso visualizzazioni e visioni repulsive, o lasciando decantare nel silenzio e nella quiete le varie pulsioni. Da una parte si ha una pratica meditativa attiva o del ‘fare’, e dall’altra, all’opposto, una passiva o del ‘non fare’. Sono concezioni diametralmente opposte che nell’ampio panorama delle varie scuole buddhiste dell’Asia orientale sono state poste a fondamento del percorso che conduce alla liberazione: alcune hanno preferito, o ritenuto più efficaci, le tecniche attive, altre quelle quietistiche.
In ogni caso, nel buddhismo la meditazione, nelle sue varie forme, è diventata una delle pratiche fondamentali, presente in modi diversi in tutte le scuole. In un’ampia varietà di forme, la troviamo quasi ovunque fin dall’antichità come pratica spirituale centrale per molti dei movimenti spirituali e religiosi, e in particolare quelli dell’Asia orientale, dove si è sviluppata fino a diventare estesamente praticata ancora oggi. Prima di proseguire, va notato che la pratica meditativa ha, o dovrebbe avere, lo scopo di favorire la conoscenza della realtà, come insegnato dal buddhismo, attraverso un’attività psicofisica regolamentata, e quindi di permettere di cogliere e successivamente abbandonare lo stato di ignoranza, di confusione e di dipendenza che genera la sofferenza e l’illusione, e condurre a stati di coscienza più elevati. E tuttavia, nel corso dello sviluppo delle pratiche meditative del Chán, non va sottovalutato un altro aspetto che si è venuto consolidando nel tempo: quello per cui la meditazione, al pari di altre pratiche, ha assunto un valore rituale marcato, come sostiene anche Bernard Faure.7 Questo aspetto ha risvolti interessanti nella comprensione del valore non solo della meditazione, ma più in generale di tutte le pratiche volte al raggiungimento della saggezza. Come nota lo stesso Faure, alcune scuole più di altre hanno sottolineato questo aspetto, tra cui, per esempio, in modo inequivocabile la scuola Sōtō giapponese. Il motivo principale che ha favorito questo sviluppo va cercato nella teoria largamente accettata in ambito mahāyāna della illuminazione originaria (běnjué, 本覺; in giapp. hongaku) e negli insegnamenti dei maestri chán del lignaggio di Măzŭ, secondo i quali la mente ordinaria, così com’è, è di già la mente dell’illuminazione’ e quindi l’attività quotidiana è espressione della buddhità, è manifestazione della propria intrinseca natura-di-buddha. La meditazione seduta così come la conosciamo oggi, e soprattutto come la conoscono i praticanti, è di fatto il risultato di un lungo percorso di adattamento che nelle varie culture ha preso forme e significati diversi. Oggi si presenta con un aspetto che è in grado di attrarre anche gli occidentali della moderna società. Nel suo percorso di diffusione sta assumendo varie forme, da quelle tradizionali ad altre, più numerose, che sono il frutto di rielaborazioni anche radicali. Una delle caratteristichè più interessanti di questo fenomeno è il seguente: se tradizionalmente nel buddhismo il percorso che conduce alla liberazione era centrato sul rispetto di regole morali e sulla pratica di rituali, oggi oltre alla pratica meditativa (soprattutto nella visione moderna occidentale), la meditazione è considerata il centro dell’insegnamento buddhista, o addirittura una pratica che trascende il buddhismo e ogni altra forma religiosa, in grado di condurre il praticante a realizzare una visione universale. Spesso viene anche considerata uno strumento salutista o terapeutico e praticata al fine di ottenere benefici psicofisici. Oppure è intesa come un metodo psicologico per accedere ai recessi più profondi e in consci della mente, e per acquisire uno stato di acquietamento, o per controllare ed eliminare le dispersioni mentali e rafforzare la capacità di concentrazione.8 In questo testo, tuttavia, la meditazione viene trattata come pratica buddhista intesa nel senso tradizionale, delegando ad altra occasione le considerazioni sui moderni sviluppi che la meditazione sta assumendo nel mondo contemporaneo.
Il percorso che intendiamo seguire si suddivide in due grandi parti: la prima, oggetto di questo volume, riguarda il Chán cinese e la seconda tratta dello Zen giapponese. Lasciando a un testo successivo lo zazen giapponese, si permette al lettore di seguire meglio la complessa storia della meditazione seduta nelle due culture.
La metodologia seguita è quella di presentare testi delle varie scuole e dei maggiori maestri tradotti in italiano dagli originali cinesi, secondo uno sviluppo cronologico che permette di prendere atto dell’evoluzione sia cronologica sia spaziale della meditazione. Pur senza pretese di esaustività, il percorso testuale proposto presenta i testi più rappresentativi del Chán e dello Zen, ognuno commentato e collocato nella sua dimensione specifica.
Note
1. Si veda Sarah Shaw, Buddhist Meditation. 21n anthology of texts from the Pali canon, Routledge, Londra e New York 2006, p. 3. ↩︎
2. Halvor Eifring, “What is Meditation?”, in Halvor Eifring (a cura di), Asian Traditions of Meditation, University of Hawai’i Press, Honolulu 2016, p. 1. ↩︎
3. A questo proposito si veda l’interessante testo di Claudio Lamparelli, Tecniche della meditazione orientale, Mondadori, Milano 1985. ↩︎
4 Si veda cap. 2, nota 59, per il rimando al testo originale. ↩︎
5. Aldo Tollini, Alla ricerca della mente. Testi del buddhismo chán cinese di epoca Tang, Ubaldini, Roma 2021, p. 174. ↩︎
6. Ivi, p. 123. ↩︎
7. Bernard Faure, Rhetoric of Immediacy. A Cultural Critique of Chan/Zen Buddhism, Princeton University Press, Princeton 1991, pp. 295-96. ↩︎
8. Su questo tema si veda David McMahan, The Making of Buddhist Modernism, Oxford University Press, Oxford 2008. In particolare il capitolo intitolato ” Meditation and modernity”, pp. 183-214. ↩︎
Nota calligrafie:
安心 è scritto nella forma regolare 楷書 kǎishū – in giapponese kaisho – ispirata allo stile sottile di Chǔ Suìliáng 褚遂良 (596-658) dell'epigrafe della grande "Stele del Santuario del Buddha di Yique" 伊闕佛龕碑 risalente all'inizio della dinastia Tang 唐, che si trova tra la grotta centrale e la grotta meridionale di Binyang 賓陽 nell'area delle grotte di Longmen 龍 門. ↩︎ anshin
I caratteri dei Tre veleni 三毒 sono copiati dalla scrittura delicata del Sutra di Maitreya 仏説弥勒成仏経 Bussetsu Miroku jōbutsu kyō, risalente al 730 – 2° anno dell’era Tenpyō 天平 – del periodo Nara 奈良時代, lungo makimono appartenente al Museo nazionale di Tokyo. ↩︎ san-doku
Entrambe queste scritture precedono l’avvento dei successivi stili calligrafici caratterizzati da espressività più libere e personali, come quelli di Yán Zhēnqīng 顏真卿 (709-785) e di Liǔ Gōngquán 柳公權 (778-865), che si opposero al classicismo delle epoche precedenti rappresentato dalle opere di Chǔ Suìliáng 褚遂良 (596-658), Yú Shìnán 虞世南 (558-638) e Ōuyáng Xún 歐陽詢 (557-641).