Colori e design dal Giappone
Un percorso tra arte, storia e letteratura

Scritto da Eleonora Lanza -

Iro è la lettura giapponese del carattere che significa colore; in realtà lo stesso carattere può essere anche letto shoku e assumere una varietà di significati, tra cui il più curioso si ottiene raddoppiandolo, per cui iro iro indica “un insieme di varie cose”, “una moltitudine di cose”, che forse si può usare anche con riferimento alla vastità di aspetti che entrano in gioco quando si parla dello stesso concetto di colore.

Il colore è, sia in Occidente sia in Oriente, per natura, indefinito e mutevole, è vivo, si cerca di fotografarlo, di registrarlo, ricordarlo, e riprodurlo, ma la sua interpretazione cambia a seconda dell’approccio, che sia emozionale, scientifico o storico, e muta di definizione anche a seconda del bagaglio culturale personale dell'osservatore. Per comprenderlo meglio, tuttavia, l’uomo usa da sempre la vista per associare il colore a un oggetto o al materiale da cui deriva, sebbene non sia in grado di farlo per ogni sfumatura proprio per l’infinitezza dello spettro cromatico.

Da qui parte “Iro, L’essenza del colore nel design giapponese”, il libro scritto da Rossella Menegazzo, un volume che esplora con testi di approfondimento e fotografie di prodotti del design e dell’artigianato giapponese 200 colori tradizionali del Giappone (Nihon no dentōshoku) seguendo la catalogazione del DIC Color Guide creata nel 1968 da alcuni nomi preminenti della grafica tra cui Tanaka Ikko, proprio per rendere standard e internazionale l’applicazione dei colori nell’ambito del design e dell’architettura.

Il nome di ogni colore, quando non è una traslitterazione di nomi stranieri, viene definito perlopiù da caratteri cinesi (kanji) che si riferiscono ora alle origini di quel colore in quanto tintura o pigmento, e quindi piante, radici, fiori, frutti, minerali da cui veniva ricavato o a cui si rifaceva, ora alla sua provenienza, quando in passato era importato dalla Cina o dal Sud-est asiatico; talvolta evoca luoghi e contesti in cui tal colore si affermò, in altri casi si rifà a nomi di attori, maestri del tè che per primi lo lanciarono facendolo diventare di moda. Ogni nome è un paesaggio in sé. Proprio per questo la scelta è stata di indagare l'etimologia e tradurre letteralmente quei caratteri cinesi che lo definiscono, nel tentativo di salvare per quanto possibile l’origine culturale di ciascun colore e la sua natura indefinita, visualizzandolo poi attraverso la selezione di oggetti della stessa tonalità.

Iro vuole sottolineare quanto le sfumature dei colori siano uniche perchè nascono dalle mani degli artigiani e da elementi naturali che danno risultati mai uguali e quindi mostrare come l’espressione delle sfumature infinite di colore legate al mondo naturale, imprendibili “come fantasmi” siano tradotte nel mondo contemporaneo giapponese e influenzino lo stile di vita anche occidentale.

Iro può essere usato come dizionario del colore, e allo stesso tempo come uno strumento accessibile e riutilizzabile che introduce, attraverso rimandi agli aspetti culturali, storici, letterari e artistici oltre che tecnici, alle origini dei colori giapponesi, dall’epoca Asuka (538 - 710) attraverso i secoli ad oggi. I saggi e le brevi didascalie per ciascun colore accompagnano il lettore attraverso i cambiamenti nell’uso e nel valore dato ai colori, a partire dalle usanze nel vestiario in epoca imperiale quando i colori si ottenevano sovrapponendo o accostando vesti di colore diverso, e arriva a toccare il tema della trasformazione nella classificazione e nell’uso dei colori tradizionali nell’epoca della tecnologia.

Tra i colori vi sono ad esempio il blu indaco (ai) e il vermiglione (shuiro), colori tradizionali citati nei primi compendi di storia e mitologia giapponese come il Kojiki (“Vecchie cose scritte”) del 712, e il Nihon shoki (“Annali del Giappone”) del 720, che sono rimasti popolari fino ad oggi soprattutto nel campo del tessile.

Il blu indaco, aiiro (藍色), il cui nome deriva da ai, la tintura blu indaco naturale estratta in vari modi dalla pianta aigusa, “erba blu”, ricavata dalle foglie delle piante di Persicaria tinctoria, oltre a indicare il colore blu, si riferisce alle tinture blu prodotte in modo naturale sin dall'antichità. Il processo di produzione tradizionale della tintura indaco, l'aizome (藍染), può richiedere anche un anno, i semi e le foglie vengono raccolti ed essiccati e poi lasciati fermentare per creare il sukumo, una forma concentrata del colorante, che viene poi mescolato con lisciva prima di essere nuovamente fermentato e usato per la tintura ad immersione che si traduce in bellissime tonalità blu, più o meno vivide a seconda dei lavaggi, che possono essere applicate su seta, cotone, canapa e altri tessuti.

L'indaco è un colore strettamente legato alla storia culturale del Giappone. Ebbe un uso diffuso nell’arte ceramica e nelle silografie degli artisti ukiyo-e del XVIII secolo, che lo usarono per raffigurare vedute e paesaggi ben prima che il blu di Prussia divenisse popolare dagli anni Trenta dell’Ottocento e si diffondessero le “immagini stampate in solo blu” aizurie. Fino al periodo Edo (1603-1868), i colori più vivaci erano riservati alle classi sociali più elevate, mentre le classi meno abbienti coltivavano il cotone e impiegavano l'aizome per renderlo più durevole e resistente. L'indaco acquisì ampio apprezzamento non solo per la sua tonalità, ma anche per le sue proprietà. Era noto per prevenire odori sgradevoli; i samurai lo indossavano per evitare infezioni nelle ferite, i vigili del fuoco lo prediligevano per le sue proprietà ignifughe e i contadini lo utilizzavano per proteggersi dai raggi del sole; infatti, se si guarda all’artigianato tessile popolare mingei si vedrà come il blu sia il colore di base, mentre le stampe ukiyo-e mostrano come in epoca Edo interi quartieri si specializzarono nella tintura indaco.

Il fascino della tintura blu indaco giapponese si ripropone oggi su articoli moderni, è il colore preferito per gli yukata (kimono estivi di cotone), è usato anche per kimono e kosode di alta qualità, come nel caso del kosode Akigasumi (“Foschia Autunnale” Iro, p. 174) realizzato da Fukumi Shimura, artista del tessile considerato “Tesoro nazionale vivente”.

Vari sono gli oggetti tradizionali come il ventaglio tipico di Kyoto (kyōaiba) con “tintura indaco puro” (hon aizome) (Iro, p. 175) prodotto da Hakuchikudo, lo storico negozio di ventagli nel cuore di Kyoto, ma anche i tessuti più moderni, come asciugamani, biancheria da letto, foulard e soprattutto blue jeans.

Nel 2017 anche il celebre negozio Mitsukoshi di Ginza ha inaugurato la stagione primaverile presentando una linea di prodotti aizome di alta qualità e varie mostre sono state organizzate per celebrare questa tintura tradizionale, non solo in Giappone, ma anche all’estero, l’ultima si è tenuta presso l'Ambasciata del Giappone a Londra nel 2023. Oggi, il blu indaco è apprezzato sia per la sua bellezza visiva che per le sue qualità più pratiche, è associato a ideologie di alta qualità e artigianalità, e il Paese continua a godere di una reputazione rinomata per la produzione di tessuti blu indaco di eccellenza come l'acclamato denim della moda contemporanea.

Le tonalità derivanti dal blu indaco erano e continuano ad essere così diverse e diffuse che spaziano attraverso un ampio spettro cromatico. Da tonalità più chiare, quasi bianche, come l'aijiro (藍白), 'blu indaco biancastro', ottenuto da una tintura leggera, visibile in alcuni oggetti di design come lo Sgabello Moon del designer Sosuke Nakabo in rovere (Iro, p. 160), fino alle tonalità più scure e profonde come il koiai (濃藍), 'blu indaco intenso'.

Il blu indaco, bellissimo e profondo, era talmente diffuso tra le classi lavoratrici in Giappone che i primi stranieri giunti nel Paese durante l'epoca Meiji (1868-1912) rimasero stupefatti nel vederlo ovunque su tessuti, abiti e noren, e lo chiamarono 'Japan blue'. Questa stessa tonalità risalta oggi nei piatti in cristallo Soft Pond di Nendo per Swarovski (Iro, p. 183), mantenendo la sua bellezza e rilevanza attraverso il tempo.

Dal miruai (海松藍), un ‘blu indaco alga miru’, un verde intenso a metà tra il miruiro, l’alga miru, e il blu indaco, riscontrabile nelle teiere (Iro, p. 151) in porcellana di Hakusan di Masahiro Mori, il più premiato designer di sempre, fino al futaai (二藍), ‘doppio blu indaco’, un viola tendente al blu, derivato da un procedimento di lavorazione di due varietà di indaco mescolate in un bagno di lisciva alcalina, di cui si hanno riferimenti già ne La storia di Genji (Genji monogatari, 1008 circa) e nell'opera epica Storia degli Heike (Heike monogatari, XIV secolo), e oggi utilizzato per oggetti d’arredo come il Tavolino C-65 City Tea Table 60 (Iro, p. 193) del designer Eiri Iwakura.

Questi e moltissimi altri colori sono raccontati e mostrati all’interno di Iro, che vuole essere una guida in questo mondo sottile e forse anche uno spunto per la creazione di nuove sfumature in futuro.

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