Tra antenati e legami perduti
Incontri con le itako del Tōhoku (prima parte)
Scritto da www.mariannazanetta.com - Introduzione
Nel Nordest dell’arcipelago giapponese, nelle prefetture più settentrionali dello Honshu, è ancora possibile incontrare delle figure particolari e affascinanti, che vivono nell’oscurità e parlano con i defunti. Si tratta delle itako, sciamane cieche che parlano con i defunti. Si tratta di una definizione fugace e di impatto, che affascina sempre il lettore, per le sue implicazioni soprannaturali e forse anche per quell’aura di pericolo e mistero. Ma nella sua immediatezza, non rende appieno giustizia a queste donne, e rischia forse di banalizzarne il cammino.
Vorrei allora provare, attraverso gli incontri con due itako particolari, a restituirvi un’immagine un più onesta e umana di queste figure.
Partiamo però dal principio: chi sono le itako? Sono donne, e sono cieche: tutto questo è vero. Ed è importante perché, sia che si tratti di una cecità di nascita o della conseguenza di una malattia, fino ad anni recenti questo era il solo elemento che spingeva una ragazzina a diventare itako. Era una ragione pratica, di sopravvivenza: la cecità era una grande disabilità in una società agricola dove lavorare era necessario, e dove ad ognuno si richiedeva di contribuire al sostentamento della famiglia. Essere cieche significava non essere in grado di lavorare, o di essere indipendenti: si diventava un fardello per la famiglia e per la comunità. Spingere una bambina a diventare itako era allora un tentativo di fornirle un nuovo ruolo sociale, scevro dal rischio di essere additata come inutile o indolente; permetteva alla ragazza di trasformarsi in un membro attivo della comunità. Inutile dirlo, erano i genitori (o i parenti) che prendevano questa decisione; ed era una decisione che arrivava, spesso, dopo un’attenta consultazione con conoscenti e vicini. Inoltre, i genitori dovevano investire una cifra significativa per pagare la maestra che avrebbe addestrato la figlia in un lungo cammino pluriennale di allenamento e convivenza.
Il percorso per diventare itako è quindi tracciato sulla povertà, sulla diversità fisica - e in qualche misura sociale - e sulla necessità di trovare uno spazio per sopravvivere. È un cammino che passa per un duro addestramento durante il quale la ragazza abbandona la famiglia ed è costretta a vivere a stretto contatto con la maestra; è un cammino fisico e spirituale tra i boschi e le montagne, in quella dimensione pericolosa e sovrumana in cui gli esseri umani non dovrebbero entrare. Il tutto per raffinare la mente e riuscire a sintonizzarsi con dimensioni diverse. È un cammino costante nel buio. Quando l’addestramento finisce, la ragazza può ritornare al mondo degli umani e ad una vita con un proposito preciso, non più bambina ma donna completa e socialmente riconosciuta. L’itako ha quindi davanti a sé una vita in contatto costante con un mondo invisibile, potente e pericoloso, che le permette di riscoprire un diverso ruolo nella comunità.
Nel corso dell’ultimo secolo, questo ruolo ha subito delle intense trasformazioni, sia per le modalità di accesso alla professione sia per le pratiche che vengono portate avanti e per le richieste che si rivolgono alle itako. Non si può negare che, complice il miglioramento delle condizioni sanitarie e di welfare, il numero delle itako sia precipitato negli ultimi decenni, ma stiamo assistendo ad una fase di creatività culturale e di trasformazione delle pratiche che passa attraverso la figura di donne “ponte”, riconosciute nell’alveo della tradizione ma foriere di trasformazioni e novità.
Per permettere al lettore di guardare con più chiarezza alla situazione, voglio condividere due incontri speciali, con due donne che rappresentano – almeno nella mia ricerca – i poli estremi della pratica: Nakamura Take (nata negli anni Trenta) che incarna l’itako tradizionale, non vedente e con una famiglia radicata nella comunità rurale, e Matsuda Hiroko (nata negli anni Settanta), una giovane sciamana senza particolari problemi di saluti e appartenente a una famiglia di impiegati.
Il confronto può così accompagnare il lettore verso una migliore comprensione del fenomeno, e verso una più concreta immagine di queste affascinanti praticanti popolari.
Un’ultima riflessione prima di accompagnarvi oltre: ci stiamo addentrando nel mondo dello sciamanismo, un ambito carico di complessità e di definizioni mai completamente nette. Gli sciamani e le sciamane sono stati al centro di studi antropologici sin dal tardo XIX secolo, e nel corso degli ultimi decenni gli studi del settore hanno favorito una nuova e più variegata comprensione del fenomeno. In ambito giapponese, il termine è delicato e il suo impiego non sempre scontato, ma mi permetto di impiegarlo per favorire una più immediata intesa circa il fenomeno. Nello specifico, parlando di sciamani o di sciamane, intendo riferirmi a quelle figure (presenti in vari contesti culturali) che ricoprono il ruolo di mediatore tra due o più mondi. Si tratta di figure ponte che aiutano la comunità dei vivi a interagire con spiriti e antenati, e che permettono una comunicazione più sicura e diretta tra dimensioni che altrimenti si troverebbero su piani di profonda incomunicabilità. Lo sciamano si reca nelle dimore degli dèi per chiedere supporto, scende negli inferi per salvare le anime in pena, agisce da psicopompo per accompagnare i defunti nella nuova dimora e per permettere loro successive comunicazioni con chi rimane da questa parte.
Gli sciamani e le sciamane sono anelli di congiunzione che favoriscono nuovi incontri, nuove intersezioni, nuovi scambi con chi non è parte della nostra dimensione.
Nakamura Take e il ricordo della tradizione
Parto allora dal primo incontro con questo universo nascosto. Era il 21 luglio 2012; ero arrivata nel caldo del Giappone solo quattro o cinque giorni prima. L’obiettivo del viaggio era la scoperta dei territori del Nordest – il Tōhoku. Qui, si sarebbe concretizzato l’incontro che aspettavo da tempo, quello con un’itako, una delle sciamane cieche che ancora praticano nelle prefetture settentrionali. Era così giunto il momento di abbandonare la Tokyo per dirigersi verso la prefettura di Aomori, in particolare la città di Mutsu.
Arrivare a Mutsu dopo cinque giorni di Tōkyō non può che essere descritto come uno shock. Visivo, in primo luogo. Il viaggio implica tre trasferimenti ferroviari, che danno la sensazione di perdere man mano un pezzo di modernità dietro di sé; abbandonato lo shinkansen che arriva ad Hachinohe in tre ore scarse, si sale su un treno locale romanticamente più piccolo e antico. Si abbandona poi anche questo per salire sull’ultimo mezzo, un minuscolo trenino a due vagoni che porta finalmente a destinazione. Anche il panorama segue la stessa parabola, come se lentamente si spogliasse di tutto ciò che è contemporaneità. Poi l’arrivo a Mutsu, una città che le cifre non possono che considerare piccola, ma di cui è complicato stabilire l’esatta dimensione: fin da subito mi ha dato la sensazione di essere spalmata su quanto più territorio possibile, come troppo poco burro su una fetta biscottata. Risultato: desolazione, che si concretizza nell’indecifrabile certezza di essere soli in un luogo solitario. Un luogo che conosce solo marginalmente le luci della modernità accecante di Tōkyō, come una memoria lontana che si risveglia nei konbini aperti tutti i giorni 24 ore al giorno, e negli enormi centri commerciali che sembrano rappresentare strane oasi abitate. Il resto è silenzio. Non avrebbe dovuto sorprendermi, anche Tōkyō è silenziosa. Ma qui il silenzio è diverso. È il silenzio del lontano.
Sono arrivata a Mutsu dopo questo simbolico viaggio in treno, unica “occidentale” tra i vagoni. E mi sono ritrovata in un clima che non serbava traccia del caldo umido della capitale, dove il fresco dei boschi e delle vicine montagne proteggeva dall’imponente estate nipponica. Era la sera precedente al nostro incontro con la mia prima itako, Nakamura Take. Le sensazioni erano miste: ansia in primo luogo – con tutte le aspettative che si maturano, e con la poca esperienza accumulata. Dubbi sulle mie capacità di gestire la situazione, e il terrore di uscirne con una figura misera. Avevo preparato qualche domanda, lo scheletro di un’intervista, ma non sapevo immaginare che genere di persona – e di risposta - aspettarmi. Nel fondo del cervello, la mia voce continuava a ripetermi: è una cosa più grande di te, tornatene a Tōkyō.
Il giorno seguente con Aya - la mia interprete - ci siamo diretti in macchina verso la casa della sciamana. Il veicolo ci ha condotti con pazienza attraverso le varie strade della città, una città che si diradava al rallentatore sotto i nostri occhi, e silenziosamente lasciava il posto alle montagne. Poi, sempre in silenzio, ci siamo fermati dinnanzi ad una casa. Un’abitazione piccola e pulita, anche se sul momento ero sicuramente troppo emozionata per rendermi conto di tutti i dettagli. Aya si è fatta avanti, e con sicurezza ha bussato alla porta, mentre io rimanevo qualche passo indietro, a recuperare il mio materiale e forse il nostro coraggio. Mentre mi incamminavo finalmente verso l’ingresso, ho intravisto la figura di una donna di statura minuta, con corti capelli tinti e accuratamente pettinati, e con una veste bianca in perfetto ordine. Non vedeva, non vedeva assolutamente nulla: gli occhi rimanevano chiusi, ma il sorriso era immenso. Aperto, semplice. Non riuscivo a credere che fosse lei, e invece era proprio Nakamura Take, l’itako che tanto avevo inseguito.
Come Aya cercava di farci capire, Nakamura ci stava invitando ad entrare in casa sua: così abbiamo fatto, con la deferenza di chi entra in un luogo sacro. Mentre io nascondevo uno sguardo imbarazzato, Nakamura-san ci accompagnava in una stanza collocata di fronte all’ingresso; qui in una piccola alcova si notava un altare su cui erano collocati, tra i vari oggetti del mestiere, le offerte di cibo e bevande portate dai vari clienti. Una volta accomodati sul tatami, Aya ha iniziato a spiegare a Nakamura il motivo della nostra visita; il dialogo è stato interrotto solo dalla risata divertita e allegra dell’anziana sciamana, e delle sue innegabili difficoltà di udito. Siamo comunque riusciti a spiegare il nostro lavoro e i nostri obiettivi, e l’itako ha accettato senza remore di eseguire un kuchiyose1 per la nostra interprete, per poi rispondere ad una breve intervista. Durante tutto il dialogo tra le due, non ho potuto smettere di osservare Nakamura. Era seduta a terra nella postura tipica giapponese, incurvata in avanti verso Aya per sentire meglio le sue parole, mentre le mani erano appoggiate una nell’altra, con una femminilità che mi ha sorpreso. Per tutto il dialogo, Nakamura non ha smesso un attimo di sorridere.
Mentre accumulavo questi pensieri nella mia mente, Nakamura iniziava a prepararsi per invocare il nonno della mia interprete. L’anziana ha bevuto un sorso di aranciata e preso il grosso e rumoroso juzu – il rosario di origine buddhista utilizzato dalle itako. Voltandosi poi verso Aya, le ha chiesto ancora alcune informazioni specifiche, e tra numerose e divertenti incomprensioni, è riuscita alla fine a racimolare tutto ciò che le serviva per contattare il defunto richiesto.
Poi, silenzio.
Gong.
Fine del silenzio.
Inizio del rituale.
Una lunga nenia, in cui Nakamura invocava divinità di varia origine per aiutarla a recuperare l’anima di questo nonno perduto. Preghiere perché il defunto accettasse di parlare con la propria nipote. Poi lentamente la nenia è cambia leggermente, dando spazio alle parole dello spirito stesso attraverso la voce della sciamana. Preghiere, ringraziamenti, riconoscenza, ricordo e memorie. Il rituale è durato in tutto circa mezz’ora. È stato più lunga di quanto credessi, anche considerando che la mia interprete non ha cercato molta interazione con il proprio defunto e ha lasciato l’azione unicamente nelle mani dell’itako.
Al termine della cerimonia, Nakamura sembrava curiosa di continuare il dialogo. L’intervista è stata piacevole: la donna dava la sensazione di aver molta voglia di raccontare la propria storia e ha condiviso con noi, in maniera inaspettatamente approfondita, la sua prima infanzia e il suo percorso iniziatico. Take era figlia di agricoltori e pastori della zona: da piccola, intorno ai tre anni, ha contratto il morbillo e poiché i genitori non sono stati in grado di accorgersi in fretta dei sintomi, l’infezione è degenerata fino a causare danni irreversibili agli occhi. Nel giro di poco tempo, ha dovuto essere sottoposta ad un’operazione per rimuovere un occhio, mentre dal secondo ha perso completamente la vista. Non è facile immaginare il dramma di una bimba così piccola che si ritrova a dover fare i conti con tutto quel buio, e con le conseguenze a lungo termine di quella disattenzione. E le conseguenze sono arrivate presto, perché Take non ha potuto andare a scuola: essendo nata negli anni Trenta, i sistemi assistenziali moderni erano ancora assenti e la scuola non era una dimensione pronta ad accogliere una bimba non vedente. Di lì a poco, il problema si è spostato sul lavoro: come poter sopravvivere in un contesto agricolo e pastorale dove la vista è requisito fondamentale per lavorare? Insomma, essere diversi in Giappone non era questione da poco.
Nakamura ha allora raccontato che i genitori si sono confrontati con vari vicini e parenti: questi hanno allora consigliato di portare la bambina (allora poco sopra i dieci anni) da un’itako che la addestrasse per quella professione. Quella che sembrava la scelta più pratica non era comunque la più facile, perché soprattutto all’epoca era necessario racimolare una discreta somma di denaro da omaggiare alla maestra. A fatica, genitori e parenti sono riusciti a mettere insieme la cifra, e intorno ai tredici anni Take è riuscita a farsi accettare come allieva da un’itako locale. Nelle parole di Nakamura siamo riusciti a cogliere il senso più autentico del ruolo di itako in quelle comunità: queste erano figure familiari, molto popolari, e molto ricercate. Ci si rivolgeva a loro per svariate motivazioni: per risolvere un problema di salute o di coppia, per benedire una casa o un raccolto, e per comunicare con i propri defunti – soprattutto per comunicare con i propri defunti. L’itako era un punto di riferimento, un punto di congiuntura tra due universi. Sempre ai limiti del mondo conosciuto, mai accettata dalle istituzioni, questa figura si muoveva tra Buddhismo e Shintoismo, e subiva spesso il disprezzo della cultura raffinata delle élite. Eppure, era una presenza vitale e rassicurante in quelle comunità rurali, in cui i legami familiari erano il cuore della vita comunitaria.
Nel corso dell’intervista, abbiamo provato a spingere le domande anche su un piano più metafisico, ma la sensazione è stata che per Nakamura questo non fosse il terreno preferito, forse nemmeno il più importante, e le risposte sono state più vaghe. Take sembrava votata alla concretezza del suo ruolo, a quanto poteva compiere nel presente per la sua comunità, più che alla ricerca di supposte verità superiori. Il tempo a nostra disposizione stava per terminare, e nuovi clienti erano alla porta; eppure, abbiamo trovato difficile interrompere il dialogo, perché Take sembrava un fiume in piena, carica di entusiasmo per quell’incontro. Alla fine, non abbiamo potuto fare altro che ringraziare immensamente l’anziana signora così ben disposta nei nostri confronti, e togliere il disturbo lasciandole continuare il lavoro.
Guardando quel viso scomparire nel verde dei pini, non ho potuto evitare di domandarmi quanto sarebbe stato diverso il nostro incontro se al posto dell’interprete avessimo potuto parlare direttamente, senza perdere nella spiegazione e nella traduzione troppi significati importanti. Se avessimo davvero potuto parlare con l’intimità della stessa lingua, forse avremmo percepito la libertà di condividere riflessioni diverse. È il prezzo che si paga ad essere un estraneo, posizione che fa apprezzare il sostegno prezioso di informatori e interpreti ma che fa inevitabilmente balzare agli occhi il pegno della distanza.
Quell’incontro, ancora oggi, rimane nel regno del surreale: è uno di quegli eventi in cui la concretezza del presente apre nuove emozioni. Lì, le itako hanno smesso di essere figure leggendarie, e si sono trasformate in donne. Forse prive di quell’alone magico e tenebroso, ma di nuovo vere: vite imbevute di lavoro, sofferenza e rivalsa.
(fine della prima parte)
Note
1. Il kuchiyose è un rituale tipico della pratica delle itako: si tratta di un’invocazione dello spirito di un defunto o di un antenato su richiesta del cliente. Tramite l’invocazione lo spirito prende possesso del corpo della sciamana e parla con i propri parenti in vita per dispensare consigli e ringraziamenti, e tornare poi serenamente nell’aldilà.↩︎