I fondamenti del Buddhismo
o del tentativo di chiarirne i punti nevraglici

Scritto da Lorenzo Lombardo -
Allora, Brahmā Sahampati, signore del mondo, sollevò le mani giunte in segno di rispettoso saluto e disse: “Ci sono esseri con poca polvere sugli occhi; che in virtù della compassione possa il Beato insegnare loro il Dharma”.
Pāli Chanting with Translations, Mahāmakut Rājavidyālaya Press, Bangkok, 1974.

Sono nato in un piccolo villaggio chiamato Catania, e per molti anni il buddhismo nella mia vita esisteva unicamente nella statuetta di un comunissimo Buddha Felice, o Buddha Grasso, che a dire il vero, nonostante mi fosse stato presentato come il Buddha, è in termini tecnici un Budài, simile a un arhat, nella cultura cinese. La statuetta l’aveva presa mio padre chissà dove, forse con l’obiettivo di addobbare la casa come chi aveva girato il mondo, e mia nonna soleva chiamarlo Pud. Forte dei suoi natali popolari credeva che Pud agisse un po' come una divinità minore, concessa, senza troppe domande al riguardo, nel suo personale pantheon mariano dove al vertice non vi era l’onnipotente, bensì la vergine Maria. Mi sorprese, dati i suoi umilissimi natali, che sapesse in che area geografica collocare il buddhismo: quando apprese che all’università stavo studiando filosofie e religioni orientali, infatti, un po' per prendermi in giro veniva da me e mi diceva: “Lorenzo, gliel’hai fatta una preghierina a Pud per chiedergli di mandarti un po' di soldi?”. Ero già uscito dalla foschia che appanna ancora l’immenso fenomeno che fu e che tuttora è il buddhismo, grazie al lume dei miei studi, e quella domanda mi faceva sempre ridere. Le rispondevo, “Nonna, guarda che a uno come Buddha, non si chiedono soldi.”

Il buffo aneddoto, che forse è più un’iperbole, sottolinea una diffusissima presenza di fraintendimenti negli ambienti non specializzati, circa il Buddhismo, che continua a esistere in molti strati delle società occidentali come un’eco di un mondo esotico lontano. Nel caso di mia nonna, che è cresciuta durante la guerra e la cui istruzione si è fermata alla quarta elementare, non sorprende la poca precisione. Questa tuttavia diventa più imbarazzante in chi anche solo in minima parte partecipa del buddhismo, magari attraverso un corso di meditazione o di mindfulness, una preghiera collettiva, un’arte marziale o un interesse amatoriale. E anche chi poi, come il sottoscritto, scopre il buddhismo in ambito accademico, si trova ad affrontare la stessa sfida, che è quella di definirlo in maniera oggettiva, pur sapendo che le definizioni a disposizione nel vocabolario religioso occidentale potrebbero non tradurre pienamente la visione del mondo di una cultura come quella indoaria del quinto secolo avanti Cristo. Anche solo il termine “religione”: la Treccani riporta, “Complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità.” In questa definizione (non difforme da quella presente, ad esempio, nell’Oxford English Dictionary), ci si concentra, in quest’ordine, su credenze, sentimenti e riti, e questi ultimi riferiti al “sacro” e alla “divinità”. Ma tali concetti sono estranei al buddhismo, o comunque non sono l’ambito principale. Come ben specificato ne I fondamenti del buddhismo, libro oggetto del presente articolo e uscito per i tipi di Astrolabio Ubaldini a luglio di quest’anno, il buddhismo è più simile a un percorso di addestramento volto alla realizzazione della quarta verità, ossia il nirvāṇa/nibbāna (da qui in avanti, nella prima occorrenza di termini tecnici citerò la dizione in sanscrito e in pāli), che a un complesso di credenze e riti, che pure vi trovano ampio spazio. Il saggio di Rupert Gethin, professore emerito di studi buddhisti presso l’università di Bristol e presidente della Pali Text Society (un’associazione fondata nel 1881 che si occupa di classificare e tradurre gli antichi testi della tradizione), tenta di individuare il retaggio comune del pensiero e della pratica buddhista, e, con un linguaggio chiaro e conciso, riportare lo studioso che vi si accinga alle radici condivise da tutti i buddhismi che si generarono a partire da quello indiano. In questa operazione, lo studioso, si avvale della sua grande conoscenza dei testi in pāli della tradizione Theravāda con l’onestà e l’oggettività del ricercatore, e sono queste forse le qualità che hanno reso questo manuale un’immancabile companion per gli studenti di moltissime università europee e italiane. Pubblicato per la prima volta nel 1998, l’introduzione al buddhismo di Gethin non offre, infatti, soltanto una precisa e competente analisi delle fonti pāli, ma integra a queste i risultati delle ricerche accademiche contemporanee, anche quando entrano in contrasto l’una con l’altra, restituendo così un’immagine palmare, seppur densa e complessa, del pensiero e della pratica buddhista.

Sul perché sia proprio nel canone Theravāda, redatto in pāli, che ne vengono rintracciate le radici, Gethin ci ricorda che esso è l’unico a sopravvivere per intero in una lingua indiana originaria. Il Theravāda (o “dottrina degli antichi”) fa risalire il suo canone alla leggendaria figura di Mahinda, un monaco figlio dell’imperatore Aśoka che trasportò una versione delle scritture dall’India del nord fino in Sri-Lanka nel iii secolo a.c. Malgrado gli studiosi siano restii ad accettare che il canone buddhista esistesse già nel iii secolo a.c. per come ci è arrivato, vi sono evidenze linguistiche e storiche che dimostrano che almeno una porzione di esso sia stato effettivamente redatto in quegli anni, e dunque sia più vicino alla prima recitazione plenaria delle scritture, tenutasi al Rājagṛha a tre mesi dalla dipartita di Siddharta Gautama. È improbabile, naturalmente, che fosse il pāli la lingua parlata dai cinquecento arhat che presenziarono a tale raduno: essa fu piuttosto una versione “sanscritizzata” dei vernacoli parlati nell’India settentrionale con cui i monaci divulgarono la parola del Buddha dopo la sua morte. Anche Buddha, infatti, aveva preferito un pracrito (un dialetto medio indo-ario) al sanscrito, proprio delle scritture e della cultura brahmanica. In occasione della lettura plenaria di Rājagṛha nacquero i “tre canestri” delle sacre scritture (tripiṭaka/tipiṭaka), vale a dire i sūtra (suddivisi in quattro Nikaya o raccolte di discorsi), il Vinaya, contenente le norme che regolavano la disciplina monacale, e i mātṛkā/mātikā, liste mnemoniche con cui si ricordavano i passaggi più importanti della dottrina del Buddha, e che confluirono poi nei sette libri dell’Abhidharma o “dharma superiore”. Ferma restando questa tripartizione, Gethin ci mette in guardia dal credere i canoni buddhisti severi come lo sono quelli delle religioni monoteiste e delle loro tante sette: le prime comunità non sentivano l’esigenza di una netta equivalenza tra le varie versioni. Persino nei resoconti di quella prima recitazione plenaria, v’erano monaci insoddisfatti che preferivano gli insegnamenti per come li avevano ascoltati direttamente dal Buddha.

Il primo ganglio che Rupert Gethin tenta di sbrogliare ha a che fare proprio con la natura straordinaria di quest’individuo. In primo luogo, la sua storicità. Non vi è unanimità sulle date della sua nascita e della sua morte, tradizionalmente collocate tra il 566 e il 486 a.c., date che oggi si tende ad anticipare di circa un secolo. Sembra infatti che molte delle cifre riguardanti la vita di Siddharta – fenomeno questo noto anche alle grandi religioni dell’occidente- siano state assimilate a numeri tondi e simbolici. E tuttavia, il ritrovamento di cui si accenna nelle prime pagine de I fondamenti del buddhismo, quando nel 1898 l’inglese Peppé recuperò da uno stūpa un’urna contenente le ceneri di un certo Buddha beato degli Śākya, così come la stele del re Aśoka, conferirebbero una certa storicità al Siddharta Gautama, figlio del re Śuddhodana, che diede inizio al movimento religioso del buddhismo. Tuttavia, nel resoconto della sua vita che la tradizione ha tramandato, sono altresì tanti i dettagli leggendari, mitologici. Come ci ricorda Gethin, che sostiene il valore anche metaforico del racconto del Buddha, “Se insistiamo col voler separare il mito e la storia, corriamo il rischio di non capire il senso di verità proprio del racconto. Gli storiografi dovrebbero accettare che nella biografia del Buddha non vi sono criteri storici definiti per distinguere tra la storia e il mito, e dovrebbero forse restare in silenzio, a quel punto, e lasciare che sia il racconto a parlare per sé”. Non per questo la versione dello studioso di Bristol rema contro la storicità del Buddha, che viene anzi presentata come essenziale. Non vi è infatti alcuna incongruenza storica nelle vicende della vita del Buddha, ed egli è anzi facilmente ascrivibile a un ben preciso milieu socio-culturale in cui si andavano formando i primi gruppi di asceti, non solo buddhisti ma anche giainisti: quello della società brahmanica. Non è possibile comprendere il buddhismo se lo si astrae dall’India del suo tempo e dunque dalla cultura vedica.

Sempre in riferimento alla figura del Buddha, Gethin sconsiglia, come forse si sarebbe tentati di fare in un contesto plasmato dalle grandi religioni monoteiste, di utilizzare le categorie di “umano” e “divino” per approcciarsi alla figura del Buddha. Buddha non è infatti né un salvatore né un padre, ma è spesso definito soltanto come “maestro” (satthar). Ciò che è messo in evidenza – ed è questa una delle lenti di ingrandimento sotto cui nel saggio si intende leggere il buddhismo – è la sua natura pratica, tutta tesa verso la realizzazione delle quattro verità e dunque, in definitiva, verso la sconfitta del dolore. Buddha in tal senso è sin da subito concepito come il Maestro, colui che ha trovato la via per sconfiggere il duḥkha/dukkha, la sofferenza, ed è stato in grado di insegnarla. Egli non è né un pratyeka-buddha, un buddha solitario che sfugge il saṃsāra (il ciclo delle rinascite) senza che nessuno lo aiuti ma che non è in grado di insegnare la via, né uno śrāvaka -buddha, ossia l’arhat che si è risvegliato da discepolo. Egli è il samyak/sammā-sambuddha, il Buddha perfettamente risvegliato, poiché, attraverso uno sforzo compiuto in milioni di vite, è giunto alla totale estinzione (significato della parola nirvāṇa/nibbāna) dei fuochi dell’attaccamento, dell’avversione e dell’illusione. L’importanza data dal buddhismo Mahāyāna alla figura del bodhisattva/bodhisatta, colui che segue il cammino non verso il nirvāṇa, ma verso la buddhità, può essere compresa solo in virtù di questa speciale caratteristica del Buddha.

C’è, come sottolinea lo studioso, un errore obbligato nel parlare di tali argomenti in traduzione, poiché, in realtà il nirvāṇa non è un luogo e non è dunque paragonabile, ad esempio, al paradiso cristiano. Sì, a volte nei testi è definito in metafora come una “città”, ma sovente negli originali pāli abbiamo un verbo e non un sostantivo, che si dovrebbe a buon titolo rendere con nirvāṇa-re e che esemplifica non tanto un’entità quanto un’esperienza.

Il secondo luogo comune risolto da Gethin è quello che vorrebbe la figura del monaco come sostanzialmente eremitica, e le pratiche buddhiste volte all’allontanamento dal mondo temporale. È vero: come accennavamo prima, il buddhismo si sviluppa a partire dalla figura del rinunciante (saṃnyāsin), un asceta nomade che fa della propria vita meditativa e religiosa il proprio mezzo di sussistenza. Tale rinunciante era tuttavia, nella tradizione buddhista, inserito in un tessuto ben delineato, che è quello della sua comunità, vale a dire il Sanga, formato dai monaci e dalle monache che, con un giuramento formale, cercavano rifugio nei tre gioielli: Il Buddha, il Dharma, e per l’appunto il Sanga. La comunità monastica è descritta come un organismo che vive in simbiosi con l’altra grande comunità, quella dei seguaci e delle seguaci laiche. E comprova di ciò la si trova non solo nei racconti della vita del Buddha e nei sūtra, ma anche e soprattutto nel Vinaya. Ad esempio, ai monaci era fatto divieto di utilizzare il denaro, di coltivare la terra e di mangiare cibo che non fosse stato ricevuto in elemosina e addirittura di conservare il cibo, e tali restrizioni li costringevano inevitabilmente a un rapporto quotidiano con il laicato. I monaci dovevano inoltre essere parte attiva della comunità laica, e presenziavano le inaugurazioni di case, i matrimoni e i funerali. Con lo svilupparsi poi dei monasteri, emerse dalla comunità laica figure come il kappiya-kāraka, ad esempio, che rendeva ‘disponibili’ (kappiya) in quanto donazioni beni che altrimenti non sarebbero stati permessi dalla severa disciplina monastica. Terre e denaro venivano dunque donate al kappiya-kāraka e amministrate da lui per conto della comunità. Tali donazioni rappresentavano un vantaggio per il Sanga, vantaggio che col tempo si estese anche ai monaci, che in casi specifici potevano addirittura lasciare quei possedimenti in eredità ai loro allievi. È chiaro dunque che, lungi dal promuovere un’antisocialità anarchica, il Vinaya era in realtà garante dell’esistenza di un prezioso tessuto sociale in cui i monaci “vendevano” alla comunità il Dharma che avevano contemplato attraverso i loro sforzi meditativi, che li ricambiava nutrendoli.

Un’altra idea analizzata da Gethin è quella secondo cui si sarebbe assistiti, all’interno del Sanga, a un progressivo decadimento dell’ideale ascetico originario del buddhismo. Abbiamo visto come già all’epoca in cui venne redatto il Vinaya si presupponeva l’esistenza di una comunità laica ben definita e si prescriveva uno stile di vita, per i monaci e le monache, non del tutto affine a quello dell’asceta itinerante. Secondo alcuni studiosi (Wijayaratna e Schopen, ad esempio), prendendo in esame non solo i testi ma anche i ritrovamenti archeologici e le rappresentazioni scultoree, bisognerebbe rivedere l’idea che, in principio, il monaco asceta itinerante fosse la figura più diffusa, e considerare due tendenze fondanti all’interno della stessa comunità: quella dei monaci che decidevano di vivere nella foresta (āraṇyaka/ āraññika) o di vestirsi di stracci (pāṃsu-/paṃsu-kūlika), e quella dei monaci di villaggio (gāma-vāsin). Queste due categorie, l’una pratica e l’altra contemplativa, a cui alcuni studiosi ascrivono anche i due grandi approcci buddhisti alla meditazione (la calma concentrata e la visione profonda), non vanno viste come categorie a tenuta stagna: non di rado un monaco, nell’arco della sua vita, faceva esperienza di entrambe, alternando periodi di esercizi privativi più faticosi a periodi di studio nei monasteri. Sì, senza dubbio era l’ideale del primo quello più improntato alla ricerca spirituale, e quello che forse fu più messo in pericolo dallo sviluppo del Sanga e dalla sua progressiva ingerenza nella cosa pubblica. Tuttavia, se da una parte figure come Ajahn Mun testimoniano la sopravvivenza di quell’ideale fino a i giorni nostri (1870-1949), dall’altra racconti come il seguente dimostrano che lo stile di vita dei monaci di foresta non era per forza più vicino allo stile di vita insegnato dal Buddha.

Due amici furono ordinati monaci a Thūpārāmā (uno dei monasteri appartenenti al Mahāvihāra), presso Anurādhapura, l’antica capitale dello Sri Lanka. Uno partì verso est alla volta del Pācīnakhaṇḍarāji, un monastero di foresta; l’altro rimase a Thūpārāmā. Trascorsero dieci anni. Un giorno il monaco che se n’era andato pensò di invitare il vecchio amico al Pācīnakhaṇḍarāji per meditare insieme in quel remoto monastero della foresta, e partì per Anurādhapura, dove fu accolto con gioia dal suo compagno di un tempo. Il monaco in visita aspettò tutto il giorno che i servitori, gli assistenti e i sostenitori laici offrissero loro cibi particolari e altre comodità, ma non si presentò mai nessuno. Così, si misero a vagabondare per la città e alla fine gli fu dato soltanto un mestolo di farinata d’avena. Mentre giravano per Anurādhapura, il monaco in visita chiese all’amico se fosse solito vivere in quel modo così frugale. Quando quello rispose di sì, l’altro gli disse che al Pācīnakhaṇḍarāji si stava comodi, e gli propose di andarci. Usciti dalle porte della città, il monaco di Anurādhapura prese la strada per il Pācīnakhaṇḍarāji.

“Perché vai di là?” chiese il monaco in visita. “Non hai appena suggerito tu stesso di andare al Pācīnakhaṇḍarāji?”

“Sì, ma non vuoi portarti nessuno degli oggetti personali che hai raccolto in questo luogo, dove vivi da così tanto tempo?”

“Sì, ho il letto e lo sgabello del Saṅgha, che ho già messo via. Non ho nient’altro”.

“Io però ho lasciato il mio bastone, la mia fialetta d’olio e la borsa dei sandali”.

“Hai racimolato tutte queste cose in un solo giorno?”

Imbarazzato, il monaco in visita dichiarò: “Per quelli come te, ogni posto è una dimora della foresta.”

Grande spazio, ne I fondamenti del Buddhismo, è dato anche alla cosmologia, che ci presenta l’immagine di un mondo ben diverso da quello immaginato nella Bibbia, nella Torah o nel Corano. L’universo buddhista è infatti abitato da una molteplicità di divinità, come Brahmā e Indra, e di esseri, quali gli asura, i gandharva (musici celesti), gli yakṣa e le yakṣiṇī, i rākṣasa (assimilabili ai nostri demoni o ninfe), i nāga (serpenti mitologici) etc. Questi esistono accanto agli esseri umani e agli animali, in una complessa gerarchia di trentuno reami, a loro volta parte di tre più grandi livelli: il mondo dei cinque sensi, il mondo della forma pura e il mondo dell’assenza di forma, che insieme vengono detti sistema-mondo.

Il primo (kāma-dhātu), è composto da undici reami che vanno dagli inferi a quelli degli animali, degli dèi invidiosi e degli esseri umani, fino ai sei regni degli dèi minori. I suoi abitanti sono accomunati da una coscienza e dai cinque sensi. Oltre, ci sono i sedici reami del ‘mondo della forma pura’ (rūpa-dhātu), dove risiedono svariate divinità superiori note come Brahmā. Questi saggi esseri sono dotati di coscienza, ma godono soltanto di due sensi, vale a dire la vista e l’udito. In ultimo, ci sono i quattro reami del ‘mondo senza forma’ (arūpa-dhātu,), abitati da un’ulteriore classe di Brahmā e caratterizzati dalla sola coscienza.

Esistono migliaia di questi sistemi mondo: un grande Brahmā dei reami inferiori può governarne mille, mentre i Brahmā dei reami superiori della sfera della forma arrivano a governarne centinaia di migliaia. Questa struttura cosmologica ha un’estensione spaziale pressocché illimitata ed è inoltre soggetto a una ciclica distruzione laddove i mondi più bassi (dei cinque sensi e della forma pura) collassano l’uno sull’altro e i suoi abitanti rinascono, in base ai meriti, nei reami di altri mondi. Secondo Buddhaghosa, monaco e autore di importanti commentari vissuto tra il IV e il V secolo d.c., se quattro grandi Brahmā dovessero partire nelle quattro direzioni a una velocità tale da attraversare centomila sistemi-mondi nel tempo in cui una freccia sorvola l’ombra d’un albero di palma, raggiungerebbero il nirvāṇa prima d’incontrare il limite di questi sistemi. I grandi Brahmā del reame delle divinità superiori vivono sedicimila eoni, alla fine dei quali raggiungeranno il nirvāṇa. Immaginate quante migliaia di sistemi-mondo potrebbe attraversare tale essere in sedicimila eoni. Perché anche solo la durata di uno supera ogni immaginazione. Secondo il buddhismo, l’universo è pressoché eterno. Si consideri, ad esempio, il ciclo di vita degli esseri che rinascono nel reame cosiddetto della “Né consapevolezza né non consapevolezza”, l’ultimo del cielo dell’assenza di forma: 84.000 eoni. E si consideri poi il seguente discorso del Buddha, tratto dal Saṃyutta Nikāya, che ci dà contezza della durata di un singolo eone:

Così come se ci fosse, o monaco, una montagna [costituita da un unico] grande pezzo di roccia, lunga sette miglia, larga sette miglia, alta sette miglia, senza fessure o cavità, [composta] di un’unica massa solida e un uomo ogni cento anni strofinasse una e una sola volta questa [montagna] con del tessuto di Varanasi. Più velocemente [di un eone], o monaco, la montagna […] sarebbe consumata e si esaurirebbe; ma non invero un eone [giungerebbe al termine]. Così lungo è, o monaco, un eone. Di eoni di tale lunghezza, o monaco, non solamente uno ne è passato, non solamente un centinaio, non solamente un migliaio, non solamente un centinaio di migliaia.

Ferme restando la vastità e la durata di tale sistema cosmologico, esso si rispecchia perfettamente nella natura psicologica dei suoi abitanti. Gethin insiste molto sull’equivalenza tra psicologia e cosmologia. E non è soltanto una questione di karma, che pure influisce visto che la qualità delle nostre azioni in vita stabilisce il reame in cui ci reincarneremo. Nel buddhismo, mentre agiamo in uno o nell’altro modo stiamo effettivamente partecipando dell’uno o dell’altro reame, tanto da potere interagire con gli esseri propri di quel regno e che ne incarnano le qualità o i difetti. È il motivo per il quale ai jhāna o dhyāna, che sono pratiche meditative volte al raggiungimento della quiete mentale, corrispondono ad esempio i primi quattro reami del mondo senza forma: il meditante che riesca a dominarli sta effettivamente facendo esperienza, in vita, di quei mondi sopraffini, e più tempo vi riesce trascorrere più aumenta la probabilità che, nella vita successiva, vi rinasca. Questa struttura non va vista in maniera teleologica né ascensionale: il nirvāṇa non è il punto di arrivo del saṃsāra. Fatta esclusione per quelli inferiori, si può raggiungere il nirvāṇa da tutti i reami compresi tra quello degli uomini e i quattro reami senza forma. Gli esseri, tuttavia, sono soliti salire e scendere, provando in innumerevoli vite dolore o gioia. Contro il pregiudizio che può sorgere in ambiente monoteista secondo cui il politeismo delle religioni induiste e buddhiste sarebbe una specie di folklorismo, Gethin, che sempre ne difende il profondo valore rituale, afferma allora che la grande varietà di esseri che abitano gli innumerevoli sistemi-mondo non sono altro che la manifestazione della grande varietà di configurazioni mentali e comportamentali, dalle più grossolani alle più sottili, in cui si possono reincarnare gli esseri.

A tal riguardo, è forse necessaria un’ultima chiosa. Leggendo della cosmologia buddhista, resa da Gethin in maniera chiarissima, sorge il dubbio che i buddhisti, attraverso la meditazione, fossero riusciti a raggiungere verità incredibilmente vicine alle scoperte della fisica odierna. Se è vero che alcune descrizioni dell’universo buddhista ben si sposino alle leggi della fisica e dell’astronomia, è bene ricordare che lo scopo del Buddha non era certo la ricerca scientifica o il progresso. Ciò è ben esemplificato da un passaggio del Cūḷa-Māluṅkya sutta in cui il monaco Māluṅkya chiede al Buddha di risolvere le dieci questioni lasciate irrisolte circa la natura dello spazio, del tempo, e della vita. Il Buddha rispose con una parabola, detta della freccia avvelenata:

Così come se un uomo fosse colpito da una freccia densamente intrisa di veleno e i suoi amici e compagni, familiari e consanguinei ingaggiassero un medico-chirurgo [per esaminare la freccia] ed egli [l’uomo] dicesse: “Io non farò estrarre questa freccia finché non so da chi sono stato colpito: che sia kṣatrya, brāhmaṇa, vaiśya o śūdra […] che sia uno che ha tale nome [proprio], di tale [nome di] famiglia […] alto, basso o medio [di statura]…” mentre tutto ciò rimarrebbe sconosciuto a quell’uomo, egli morirebbe.

La parabola ci insegna che conoscere il mondo in questo senso – se vogliamo più scientifico – in realtà ci allontana dallo scopo pratico del buddhismo: la sconfitta del dolore.

In quello che è il capitolo più lungo di tutto il saggio, Rupert Gethin disseziona le componenti principali del sentiero buddhista, quell’insieme di conoscenze e di pratiche che conduce invero alla cessazione della sofferenza.

Il primo passo è la fede. Fede è un termine che, in un contesto iper-tecnicizzato e positivista come quello in cui spesso navighiamo, ha il sentore del fanatismo e lo stigma di quella censura dell’età dei lumi e poi marxista che associò la fede a una sorta di stupida cecità. Attraverso le parole di Conze, il manuale ci presenta la distinzione talvolta operata tra due tipi di fede, l’una “affettiva”, l’altra “cognitiva”. La fede cognitiva, la cui idea in occidente sopprime sovente l’altra e si impone come idea di fede universale, si riduce a una presunta conoscenza derivata dalla fiducia in affermazioni o dichiarazioni di cui non si ha, o non si può avere, diretta esperienza. La fede che invece esiste nel buddhismo è invece di tipo “affettivo”, ed è “la risposta emotiva positiva a qualcosa o a qualcuno di cui si è sentito, o letto.” Non sorprende che, in sanscrito, la parola per fede (śraddhā ) sia diventata il latino cor-cordis (e l’inglese heart, per via della rotazione consonantica), è che descriva più un movimento del cuore che uno della ragione. Se questo è il sostrato concettuale in cui inquadrare la fede nel buddhismo, vi sono altre due metafore che ben ne esemplificano la funzione: in una, è paragonata a una gemma che gettata in un fiume ne plachi le acque; nella seconda, alla fiducia che ci fa compiere un grande salto. Le pratiche devozionali hanno così la doppia funzione di placare la mente del meditante e infondergli la sicurezza necessaria a superare le fasi più ardue del cammino. È vero, Il Buddha dei primi testi potrebbe essere stato critico verso alcuni rituali brahmanici, come il sacrificio animale; e potrebbe anche aver negato che il sentiero possa essere compiuto con il solo aiuto della fede. È altresì vero, però, che prescrisse il pellegrinaggio nei luoghi dove era nato, aveva raggiunto l’illuminazione, aveva per la prima volta insegnato il dharma ed era infine morto, e lodò anche i gesti di devozione di altri culti (quello giainista, ad esempio).

Soltanto armati della fede si entra nel giusto stato mentale per approcciarsi alla seconda grande matrice del sentiero buddhista: la condotta etica, sintetizzata nell’ottuplice sentiero (retta visione, retta intenzione, retta azione, retta parola, retto modo di vivere, retto sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione). Una giusta condotta è fondamentale se si vuole liberare la mente dai tre grandi inquinanti dell’attaccamento, dell’avversione e dell’ignoranza, ma è anche di vitale importanza approcciarsi all’ottuplice sentiero con la giusta mentalità. Anche nell’aderenza ai precetti morali in quanto tali si può insidiare l’attaccamento, definito in questo caso śīla-vrata-parāmarśa, ovvero ‘attaccamento ai voti e ai precetti’, e questo può inquinare una vera compassione. Il buddhismo ci mostra come la condotta etica sia qualcosa di sottile e complesso, che non si domina soltanto con un dogmatico e passivo asservimento alle regole. Essa è, in breve, la manifestazione di qualità virtuose, come il non-attaccamento, la benevolenza e la saggezza. L’arhat non agisce in modo corretto in virtù di una credenza, ma semplicemente ha sradicato da sé ogni istino ad agire in modo scorretto. Calzante suona allora il monito zen: “Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo!”.

Il terzo elemento cruciale alla sconfitta del dolore è la pratica meditativa. Sebbene possa apparire curioso, non esiste un traducente preciso per la parola meditazione nel dizionario buddhista. I due termini più vicini sono bhāvanā e yoga. Il primo, più antico e più propriamente buddhista significa ‘far divenire’, in riferimento a quelle pratiche spirituali volte a sviluppare le qualità positive che conducono alla realizzazione del sentiero buddhista. Sedersi a gambe incrociate è uno (ma non il solo) di questi esercizi. Il secondo termine è abbastanza polisemico. La radice sanscrita yuj vuol dire innanzitutto “legare” (da cui il latino iogum, e l’itatliano giogo). Il gesto di aggiogare i buoi o i cavalli è diventato dunque simbolo di uno ‘sforzo’ o ‘lavoro’ generale, e ha assunto l’accezione più specifica di lavoro e di tecnica spirituale abbastanza presto nella storia religiosa dell’India. Entrambi dunque hanno a che fare con uno sforzo, che è poi anche alla base del sanscrito śramaṇa, ovvero “colui che si sforza”, intendendo dire colui che si sforza nel cammino dell’illuminazione (samādhi). L’obbiettivo è l’eliminazione progressiva dei cinque impedimenti del desiderio sensuale, cattiva volontà, torpore, eccitazione o depressione, e dubbio, sostanzialmente in due modi: placando la mente, e comprendendone la natura. Queste due direzioni sono riassunte nelle due grandi tipologie di meditazione: la “calma concentrata” (śamatha) e la “visione profonda” (vipaśyanā/vipassanā). Qui Gethin trae molto dagli scritti di grandi commentatori indiani come Vasubandhu, Buddhaghosa e Asaṅga. Per raggiungere un assoluto e profondo stato di quiete è necessario riuscire a fermare la linea del pensiero su un solo oggetto meditativo, abilità che si ottiene con varie pratiche di concentrazione e visualizzazione, di cui nel saggio vengono riportate con precisione soltanto quelle contenute nel Visuddhimagga di Buddhaghosa, e, in misura minore, quelle teorizzate da Asaṅga. All’inizio si centra la propria attenzione su un oggetto fisico; mano a mano che si sforza di guardarlo, al meditante non servirà più contemplare l’oggetto in sé e per sé, poiché sarà in grado di visualizzarlo nella mente. Solo quando si è esplorato a fondo quest’immagine eidetica si arriva finalmente a visualizzare il ‘segno equivalente’ (paṭibhāga-nimitta), che corrisponde al raggiungimento della concentrazione d’accesso, punto di inizio della pratica dei quattro dhyāna (ed è questo invero il termine da cui deriverà il chan cinese e lo zen giapponese). I dhyāna mirano alla sconfitta dei cinque impedimenti di cui sopra, rinunciando non solo alle pulsioni, ma perfino agli stati di serenità e di gioia verso una perfetta equanimità. Quando si ha il controllo di tutti i livelli del dhyāna, il meditante acquisisce delle abilità che noi, nutriti di fumetti e fantascienza, saremo tentati di associare al “paranormale”. Sono i cosiddetti ṛddhi / iddhi o ‘conoscenze superiori’ (abhijñā / abhiñña), così descritte in alcuni passi dei Dīgha Nikāya, e del Visuddhimagga:

Essendo uno egli diventa molti, essendo molti diventa uno, si manifesta o si cela, passa oltre le recinzioni, i muri e le montagne senza esserne ostacolato come se fosse nell’etere, si immerge ed emerge dalla terra come se fosse nell’acqua, cammina sull’acqua senza sprofondarvi come se fosse sulla terra, procede a gambe incrociate nell’etere come se fosse un uccello alato, tocca e accarezza con la mano la luna.

Tuttavia, per “entrare nel flusso”, ovvero raggiungere il nirvāṇa, è altresì necessario lo sviluppo della “visione profonda”, un’abilità che riguarda più l’intelletto, e la comprensione dell’effimera e incostante natura dei dharma, vale a dire degli eventi fisici e mentali, attraverso la contemplazione di tre grandi concetti: che tutto è impermanente, che tutto è dolore, e che non esiste in ultimo il sé. Questi non sono altro che l’espressione più nucleare del pensiero buddhista: comprendere che tutto è impermanente significa comprendere che tutto è vuoto, privo di causa sostanziale e frutto della pratītyasamutpāda/paṭicca samuppāda, ossia della legge dell’originazione dipendente, che spiega come gli eventi si inter-relazionino tra di loro per dar vita a fenomeni sempre in divenire. Così è anche l’ātman, cioè il sé. A tal proposito, diceva il Buddha:

“O monaci, cosa pensate? La forma corporea è permanente o impermanente?”

“Impermanente signore”

“Ciò che è impermanente è doloroso o piacevole?”

“Doloroso signore”

“Ciò che è impermanente, doloroso, soggetto a cambiamento, è corretto considerarlo così: ‘Questo è mio, questo sono io, questo è il mio Sé?’”

“Per niente, signore!”

“Perciò, o monaci, qualsiasi forma corporea, passata futura e presente; interna o esterna, grossa o sottile, inferiore o superiore, in lontananza o vicinanza, ogni forma è da vedersi con retta saggezza, secondo realtà, solamente così: ‘Questo non è mio, questo non sono io, non è mio questo Sé’.

Ogni tipo di sensazione, ogni tipo di identificazione, ogni tipo di formazione, ogni tipo di coscienza, passata futura e presente; interna o esterna, grossa o sottile, inferiore o superiore, in lontananza o vicinanza, ogni forma è da vedersi con retta conoscenza, secondo realtà, solamente così: ‘Questo non è mio, questo non sono io, non è mio questo Sé.”

La “visione” di questi concetti conduce, attraverso un complesso percorso difficile da sintetizzare in questa sede per la molteplicità delle sue diramazioni, allo stato di arhat. Anche se si è riusciti a conseguire tutti e quattro i dhyāna, senza lo sviluppo di questo intuito liberatorio che ci fa conoscere il nirvāṇa in modo diretto, non è possibile raggiungerlo. Il nirvāṇa è, in questo senso, il saṃsāra che finalmente riusciamo a vedere nella sua quiddità, nella sua talità, così com’è.

Non c’è unanimità su quali di queste due tecniche, quella della calma concentrata e quella della visione profonda, sia nata prima, o in che ordine vadano eseguite. Emerge dai testi antichi una certa tensione tra i sostenitori della pratica del dhyāna e quelli che prediligevano un metodo più intellettuale. La sistematizzazione operata in seguito sarebbe allora un tentativo di riconciliare concezioni in origine distinte circa la natura del cammino buddhista. Nei testi, ad ogni modo, è dato ampio valore a entrambe, ed entrambe sono funzionali all’illuminazione. Nonostante vi sia una sempre maggiore apertura verso la possibilità di un risveglio completo che non sia basato sui dhyāna, i manuali più tardi sono tutti concordi nell’affermare che al meditante servano sia la calma concentrata che la visione profonda e che il traguardo meditativo al culmine del percorso richieda la convergenza di entrambi.

Altro grande pregio del manuale di Gethin è il resoconto approfondito che fornisce dell’Abhidharma, il terzo e ultimo componente del Tripiṭaka. È, questo, un tema ancora poco approfondito, e uno dei campi di specializzazione dell’autore. Secondo la tradizione, le dottrine contenute nell’Abhidharma hanno un potere salvifico simile a quello di una formula magica.

[Buddha] insegnò il metodo dell’Abhidharma a Sāriputta, il più saggio dei suoi discepoli, che veniva a fargli visita e che in seguito divulgò l’insegnamento ad altri cinquecento tra i suoi seguaci. Questi, come si racconta, ai tempi del Buddha Kassapa, molti eoni prima, si erano reincarnati in pipistrelli, e appesi a testa in giù in una caverna, avevano sentito due monaci recitare l’Abhidharma. Naturalmente, essendo pipistrelli non erano riusciti a comprenderne il significato, ma, a quanto pare, bastò il suono dell’opera a lasciare in loro un segno. Infatti, rinacquero nel mondo degli dèi, dove rimasero nell’intervallo di tempo tra un Buddha e il successivo. Alla fine, rinacquero come esseri umani, e divennero monaci e allievi di Sāriputta, che, insegnando loro i sette libri, li rese maestri dell’Abhidharma.

Per comprendere l’Abhidharma, il dharma cosiddetto “superiore” o “ulteriore”, è necessario prima ragionare sulla modalità d’approccio, nel buddhismo, al discorso sulla verità. Nel buddhismo infatti esistono una verità convenzionale (saṃvṛti/sammuti) e una verità ultima (paramārtha/paramattha). Se nelle scritture infatti si adoperano concetti come persona o identità, ciò non rende il messaggio incoerente con l’insegnamento del non-sé, poiché quel particolare testo esprime in modo convenzionale qualcosa il cui significato ultimo è ancora da comprendere fino in fondo. Gethin paragona l’Abhidharma alla grammatica, laddove i sūtra sarebbero la lingua effettivamente parlata. I suoi sette libri analizzano dunque la realtà dal punto di vista della verità ultima. Secondo lo studioso, le scritture abhidharmiche sarebbero state redatte, quanto meno nella loro struttura di fondo, dalla prima generazione di discepoli, e ciò ne spiegherebbe anche la grande autorità. Tuttavia, pur conferendogli questa posizione e riconoscendo il contributo dei primi discepoli nella loro trasmissione, è insita nella tradizione l’idea che queste non corrispondano esattamente alla parola del Maestro. Proprio in virtù di ciò, l’Abhidharma può essere inteso come un primo ‘commentario’ agli insegnamenti del Buddha.

Non a caso, vi sono alcune scuole di pensiero, ad esempio i sautrāntika (‘fedeli agli insegnamenti dei sūtra’), che si opposero all’Abhidharma o a parte delle sue dottrine, rifiutando che fosse incluso tra le “parole del Buddha”.

Le versioni che ci rimangono sono quella della scuola Theravāda e quella della Sarvāstivāda, l’ultima solo in traduzione cinese. Entrambe cercano di presentare un resoconto completo della realtà, attraverso l’analisi delle sue componenti più piccole, i dharma/dhamma, assimilabili agli atomi malgrado, a differenza di questi, descrivano anche fenomeni mentali e psicologici. In quanto testi appartenenti a “scuole”, poi, in entrambe le versioni si riportano le controversie generate dalla suddetta analisi.

L’interrogazione sulla natura ultima dei dharma che ci è offerta dall’Abhidharma si prefigura inoltre come una vera e propria gnoseologia o una filosofia della mente. I dharma compongono anche i fenomeni psichici, e spiegarli equivale a spiegare ad esempio il funzionamento della coscienza. Sono tante e complesse le teorizzazioni che, sullo sfondo dell’originazione dipendente e dell’insegnamento del non-sé, tentano di analizzare fenomeni come la percepita continuità del flusso di pensiero, il senso di identità o anche la reincarnazione. L’Abhidharma, allora, ci restituisce, in negativo o in positivo, lo sviluppo teorico delle grandi scuole di pensiero del buddhismo, e contiene i fondamenti su cui si fonderanno, ad esempio, il Madhyamaka e lo Yogācāra. Per un’analisi più approfondita delle varie teorie abhidharmiche, si rimanda alla lettura del capitolo otto, sicuramente esaustivo.

L’ultimo grande nodo sciolto da Gethin nel tentativo di individuare gli elementi condivisi tra tutti i buddhismi è quello relativo alla nascita e allo sviluppo del Mahāyāna. Ancora oggi, troppo sovente si tende a presentare il buddhismo come sostanzialmente diviso in hīnayāna (piccolo veicolo) e mahāyāna (grande veicolo), dove l’uno sarebbe una forma arcaica e in qualche modo bigotta di buddhismo, e l’altro una forma innovatrice che a questa si sarebbe opposta. Tale visione non potrebbe essere più lontana dal reale.

Come per tutti i testi dell’India antica, le datazioni dei primissimi sūtra del Mahāyāna sono estremamente problematiche. La prima fonte risale al II secolo, quando il monaco Lokakṣema ne tradusse diversi in cinese, probabilmente a partire da testi risalenti all’incirca a un secolo prima. È dunque nel I secolo che gli studiosi, oggi, tendono a collocare la nascita della filosofia del Mahāyāna. Ciò nonostante, questi sūtra si presentano come insegnamenti originali del Buddha, taciuti finché il tempo non fosse maturo abbastanza per la loro divulgazione. La maggior parte degli studiosi, tuttavia, è concorde nell’affermare che quello del grande veicolo non fu in principio un movimento settario, e che le sue dottrine non avevano carattere esoterico. Viene in tal modo superata la visione, un po' luterana, secondo cui fu proprio a causa di tali dottrine che avvenne il primo grande scisma tra riformisti (sthaviras – o thera, in pāli –), e la maggioranza mahāsāṃghika, ‘quelli della grande comunità’, a cui effettivamente potrebbero essere ricondotte le dottrine del Mahāyāna, sebbene posteriori di almeno due secoli alla divisone della comunità buddhista.

Tutte le scuole del grande veicolo partono dal presupposto che la via per diventare un arhat sia in effetti inquinata da un residuo di egoismo e priva della grande compassione (mahākaruṇa), ed è per questo che l’unico sentiero di pratica buddhista legittimo è soltanto quello del bodhisattva. Sebbene i testi del Mahāyāna pongano l’accento su come la motivazione del bodhisattva abbia un valore diverso rispetto a quella dello śrāvaka, o discepolo, i due percorsi non sono poi così dissimili: l’unica differenza è che il primo, nello sviluppare le stesse qualità spirituali del secondo, le perfeziona fino a raggiungere la buddhità. È sullo sfondo di questo tema trasversale che poi vengono sviluppati gli altri grandi concetti del buddhismo Mahāyāna: quello della “perfezione della saggezza” (prajñāpāramitā), quello della “sola mente” (vijñapti-mātra) e quello dell’”embrione del Buddha” (tathāgata-garbha).

Grazie alla sua completezza e precisione, I fondamenti del Buddhismo, come forse si è potuto evincere da questa scarna rassegna, rappresenta sicuramente una lettura dovuta, per i neofiti, e rimane comunque ottimo almanacco anche per il ricercatore esperto che volesse richiamare alla mente certi importanti nodi del pensiero e della pratica buddhista. Aggiornato con le riflessioni dei più importanti studiosi fino al ’99, anno della pubblicazione, e arricchito (nell’ultimo capitolo) da un’analisi dei buddhismi contemporanei nel mondo, il saggio di Gethin risolve il buddhismo nei suoi elementi nucleari, con un taglio che è sincronico, nel suo ritornare puntualmente ai testi della tradizione, e diacronico nella misura in cui traccia una cronografia dello sviluppo dei grandi temi del buddhismo. Nella versione italiana i testi originariamente in pāli e sanscrito (presenti, alcuni, in questo articolo) e la prefazione sono state curate da Bryan de Notaris, esperto di buddhismo che, durante gli studi dottorali, ha avuto modo di collaborare con il professor Gethin.

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