L’ultimo shōgun Tokugawa Yoshinobu
Scritto da -Lo diceva già Genji lo splendente mille e più anni fa: la storia ci racconta gli avvenimenti, ma solo il romanzo fornisce i dettagli. Magari non sono esatti – aggiungeva – “ma nascono quando non è possibile tenere chiusi nel proprio cuore fatti che si desidera trasmettere alle generazioni future, avvenimenti di esseri che vivono in questo mondo, buoni o cattivi che siano, che non ci si stanca mai di osservare o di ascoltare.” Sono “mezzi di salvezza”, contraddittori ma vivificanti proprio per i dubbi che seminano.
È vero, il protagonista del Genji monogatari forse si esprimeva in questo modo perché, fedele alla sua fama di seduttore, cercava di entrare in sintonia con la bella Tamakazura, grande lettrice di romanzi. Ma la scrittrice che l’aveva creato, Murasaki Shikibu, gli faceva dire ciò che lei stessa davvero pensava e che avrebbe alla fine permeato il procedere della cultura giapponese. Perché, se questa è nata dalla chiara e inevitabile divisione tra storia e poesia, poi ha cominciato a prendere forma tra le due “esplorazioni” della realtà qualcosa che assomigliava a una sintesi che ha subito dimostrato di avere una straordinaria forza vitale. Storiografia e letteratura hanno preso a dialogare. L’una è confluita nell’altra. Le acque dei due fiumi si sono confuse fino a rendere impossibile discernerne la provenienza. Dalle cronache infarcite di racconti mitologici si è passati ai monogatari medioevali e questi, come un fiume in piena, hanno travolto ogni argine: una inondazione protrattasi fino ai nostri giorni, quando alla letteratura e al teatro (in tutte le sue forme popolari e nobili) si sono affiancati nuovi media e nuovi generi, dalla televisione, al cinema, al manga, all’anime e via via fino ai videogames, dove ormai i personaggi storici e le loro vicende hanno perso ogni rapporto con la realtà, ma di cui bastano solo i nomi per rinnovarne il successo.
Il dialogo – si potrebbe constatare con preoccupazione - è diventato un’allucinazione. Così va il mondo nell’era della rivoluzione informatica. Ma non tutto è perduto perché il romanzo storico – quello per così dire “classico” - resta un punto di riferimento irrinunciabile per capire il Giappone e la sua cultura. E se si potrebbe obiettare che i monogatari medioevali che ben ci descrivono l’evoluzione e la crisi di quell’età dell’oro che fu l’epoca Heian, così come gli innumerevoli romanzi che ci parlano del sengoku jidai, la lunghissima guerra civile che portò alla nascita del potere Tokugawa, si riferiscono a un passato che sembra ormai morto e sepolto, resta indiscussa l’attualità delle opere che cercano di passare, come direbbe Genji, dagli avvenimenti ai dettagli di un altro periodo fondamentale e determinante che in Giappone è chiamato bakumatsu (la fine del bakufu).
Se i problemi dell’Italia di oggi possono essere in parte considerati ancora figli di ciò è stato il Risorgimento, il Giappone resta figlio del bakumatsu, che i libri di storia racchiudono tra il 1853, l’anno dell’arrivo delle “navi nere” americane, e il 1868, l’anno della Restaurazione Meiji, un periodo in cui istituzioni politiche e assetto sociale sono crollati determinando la fine dell’epoca Tokugawa e aprendo il Giappone alla modernizzazione.
Il bakumatsu non poteva non stimolare l’attenzione e la fantasia di scrittori e lettori; e naturalmente un ruolo di primo piano veniva dato, soprattutto all’interno dell’enorme produzione letteraria di carattere popolare, agli “eroi” che emergevano da questo drammatico periodo. Come da tradizione, la simpatia si è indirizzata verso il versante perdente, cioè verso personaggi come Saigō Takamori, Sakamoto Ryōma, Hijikata Toshizō, e poi ancora gruppi come lo Shinsengumi, le giovanissime reclute del Byakkōtai, gli ultimi difensori del bakufu del feudo di Aizu (ivi comprese donne guerriere come Yamamoto Yae e Nakano Takeko). Nella affabulazione letteraria poco importa da quale parte si fossero trovati a combattere. L’importante era avere difeso fino all’ultimo la causa ritenuta “giusta”.
Viceversa i vincitori (che poi sarebbero diventati i “modernizzatori “del Paese) come Itō Hirobumi, Iwakura Tomomi o Ōkubo Toshimichi sembrano essere stati amati assai poco o comunque non sembra abbiano stimolato grandiose riletture in chiave letteraria o drammatica. Difficile fare passare ministri e burocrati come eroi anche se, come accaduto ad alcuni di loro, hanno conosciuto una morte, se non proprio gloriosa, sicuramente tragica. Singolarmente, anche un personaggio in certa misura “minore” come Ii Naosuke è passato nella cultura popolare non tanto per la sua personalità, ma per la scena della sua morte (riproposta infinite volte) mentre in palanchino attraversa solennemente il portale di ingresso del palazzo imperiale in una fredda mattina percorsa da fiocchi di neve, e qui viene assalito e ucciso da un gruppo armato.
In tutto questo panorama una posizione particolare è occupata dall’ultimo shōgun, Tokugawa Yoshinobu. Fu sicuramente apprezzato per i suoi meriti, soprattutto un’intelligenza e una conoscenza dei fatti storici fuori dal comune che gli permettevano di capire prima degli altri cosa stesse accadendo in quel periodo così complicato. Ma fu anche tropo “moderno”, troppo concreto e pragmatico per suscitare la totale “simpatia per il perdente”. Ammesso che perdente davvero egli sia stato.
Perché, se il romanzo storico vale per i dubbi che semina, come suggeriva Genji lo splendente, L’ultimo shōgun, l’opera di Shiba Ryōtarō pubblicata ora in traduzione italiana da Einaudi, lascia aperte varie, opposte interpretazioni del suo operato. Yoshinobu assecondò o si oppose al trend dominante? La sua accettazione della sconfitta fu un nobile gesto per porre termine a una sanguinosa guerra civile o fu guidato da calcoli opportunisti per salvare quello che poteva per sé e la propria famiglia?
Il libro di Shiba Ryōtarō si muove proprio intorno a questa ambiguità che si accompagna alla descrizione di una serie di personaggi – quelli che circondano l’ultimo shōgun - finalizzata a creare un quadro di insieme di un ambiente e di un periodo storico tormentato e complesso. Coerentemente con questo assunto, nel romanzo ampio spazio è dedicato al groviglio dinastico che caratterizza la scelta dello shōgun, carica affidata solo ai membri delle Tre Nobili Famiglie allo scopo di garantire stabilità al potere, ma che col passare del tempo e con l’indebolimento genetico dei clan dominanti a causa della asfittica politica matrimoniale si era rivelato disastroso, portando al vertice dello Stato, proprio nel momento decisivo del bakumatsu, giovani del tutto inadeguati al compito che era stato loro affidato. Altrettanto accuratamente delineati sono gli scontri ideologici celati dietro il ruolo da attribuire all’imperatore e gli intrighi tra le fazioni in lotta, solo in apparenza interessate a difendere l’indipendenza del Giappone di fronte all’invadenza delle potenze occidentali e in realtà pronte a qualunque compromesso pur di accrescere le proprie prerogative. Su tutto si colloca l’ascesa e la caduta di Yoshinobu, che si trova giovanissimo a disporre di un consenso generalizzato, per molti versi immotivato: “Non capita spesso – si legge nelle prime righe del romanzo - che una persona nella prima metà della vita raccolga intorno a sé tutte le speranze del mondo come è avvenuto per Yoshinobu, quindicesimo shōgun dei Tokugawa. Questa circostanza è stata il tema dominante della sua vita”. Finirà però col deludere un po’ tutti, forse perché, come sottolinea Ryōtarō, più che un abile politico fu soprattutto un abilissimo attore, derogando talvolta con cinica determinazione alle sue responsabilità.
Ma, nonostante ciò, al di là della vera o presunta fedeltà al fatto storico, non è difficile avvertire la simpatia che Shiba Ryōtarō dimostra nei confronti del suo personaggio. Una simpatia che – sempre se vogliamo accettare l’interpretazione che lui stesso ci fornisce - fu ampiamente condivisa non tanto dai suoi colleghi aristocratici, quanto dalla gente comune, dai suoi dipendenti e in particolare, da un altro personaggio chiave di quegli anni, che sarebbe in seguito emerso come il primo imprenditore di tipo moderno del Giappone: Shibusawa Eiichi (1840-1931), che fu per un certo periodo vassallo di Yoshinobu e non volle mai dimenticare il suo antico signore anche quando le loro strade si divisero, al punto che la sua tomba è collocata non lontano da quella dell’ultimo shōgun nel cimitero di Yanaka.