I kabukimono
Ho vissuto troppo a lungo! Eccesso e provocazione nel Giappone del XVII secolo

Scritto da Rossella Marangoni www.rossellamarangoni.it -

Inalberavano spade dalle lunghe lame, custodite in sgargianti foderi su cui a volte facevano incidere motti provocatori. Incedevano per le strade delle città muovendosi con gesti magniloquenti, atteggiamenti volgari e strafottenti, in gruppi chiassosi. Si dicevano leali e giusti e non si tiravano indietro neppure davanti alle autorità. Professavano uno spirito cavalleresco (ninkyō 任俠). Erano a volte guerrieri di basso rango, a volte rōnin, a volte addirittura rampolli di famiglie di mercanti: erano chiamati kabukimono かぶき者 (da kabuku かぶく, “inclinare”, “essere storti” e mono 者, “individuo”) ma erano anche definiti hatamotoyakko 旗本奴 nel caso fossero di ascendenza samuraica,1 machiyakko 町奴, nel caso di un’origine mercantile.2

Dal punto di vista legale, ossia dall’ottica dell’autorità shogunale che cercava di arginare il fenomeno augurandosi prima o poi di cancellarlo, l’unica caratteristica capace di definire questi individui era la moda: solo la foggia di vesti e accessori (sempre vistosi e sovradimensionati) infatti, definiva l’essere kabuku e lo sottoponeva ai dettami della legge.3

Lo storico David Ambaras, che ha studiato la delinquenza minorile nella storia giapponese, individua proprio nel primo quarto del XVII secolo, ossia all’inizio del periodo Tokugawa, l’epoca in cui il fenomeno emerge per la prima volta in tutta la sua virulenza, attraverso la comparsa per le strade di Kyōto, e poi via via negli altri centri urbani, di “bande di giovani facinorosi abbigliati in modo sgargiante”,4 i kabukimono. In una prima fase questi giovani provenivano dalla classe guerriera, in generale dai suoi strati più modesti, cui si univano elementi marginali come i rōnin, privi di signore feudale e allo sbando. Nelle analisi di sociologi come Ikegami Eiko e altri, il sentimento prevalente che animava questi gruppi devianti di origine bushi, i cui membri erano troppo giovani per aver partecipato alle battaglie del periodo Sengoku, era quello di aver mancato un’occasione: quella di poter dimostrare il proprio valore combattendo. Inoltre la pacificazione del paese portava con sé l’impossibilità di accedere al bottino di guerra e la riorganizzazione del sistema feudale sotto i Tokugawa aveva condotto a un impoverimento dei guerrieri di basso rango. Cause ideali ed economiche, quindi, un desiderio di rivalsa e un senso acuto di frustrazione e di impotenza hanno, secondo gli studiosi, condotto questi giovani a considerare la propria esistenza come un gioco perso in partenza ed ecco allora i comportamenti eccentrici e oltraggiosi, le risse nelle strade, i furti, le bravate o gli atti di violenza improvvisa, le prepotenze e, infine, il cinismo.

In parallelo all’insorgenza dei gruppi di hatamotoyakko, si costituirono gradatamente bande di kabukimono i cui membri provenivano da famiglie di mercanti e perciò detti machiyakko. Questi individui si autodefinivano paladini dei cittadini i quali, indubbiamente, ne temevano gli eccessi ma che non nascondevano nei loro confronti una sorta di ammirazione per l’atteggiamento di sfida dell’ordine shogunale e per l’effettiva protezione garantita loro dai soprusi dei guerrieri di ogni rango. I gruppi di machiyakko, a poco a poco, presero a diversificare le loro attività, arrivando a fornire lavoratori a giornata alle case guerriere e, di fatto, alimentando quell’ambigua palude malavitosa in cui alla gestione dei giornalieri si affiancò quella del gioco d’azzardo fino ad arrivare al controllo delle attività commerciali nei sakariba (sorta di fiere di piazza) e nei matsuri: una trasformazione che portò all’origine di quella che in seguito sarà conosciuta come yakuza.

Neppure la corte fu esente dal fenomeno kabuku se, come emerge dall’analisi di Butler, dei regolamenti emanati dallo shogunato nel XVII secolo, alcuni articoli sembrano diretti proprio a sanzionare, all’interno della corte, i comportamenti dei kabukimono. Nell’editto datato 1613 e rivolto alla corte: “Il terzo, quarto e quinto articolo esortano la nobiltà a evitare la negligenza nel lavoro e ad astenersi da attività quali vagare per i vicoli della città senza scopo o associarsi con servitori volgari (aosaburai). In altre parole, queste ultime tre sembrano essere minacce ai kabukimono della corte.”5

Caratteristici dei gruppi di kabukimono, di qualunque estrazione sociale fossero, era l’organizzazione orizzontale, la costituzione in kumi 組 (gruppo) dalle regole di condotta codificate (giuramenti di fedeltà e obbedienza, rituali di fratellanza sigillati con il sangue, promesse di mutuo soccorso anche a costo della vita, gergo iniziatico, ecc.), la presenza di un carismatico oyabun 親分 quale rappresentante della banda, le relazioni spesso di natura omosessuale che ne collegavano i membri. Come sottolinea Ikegami, “le loro mode devianti simboleggiavano sia la loro solidarietà interna che la loro frustrazione nei confronti del sistema.”6

Alcune figure, nella storia di questo periodo, spiccano per l’impronta lasciata sulle cronache del tempo e per la narrazione idealizzata delle loro imprese trasmessa dalla cultura popolare. Una è quella di Ōtori Ichibei (o Ichibyōe, ?-1612).

Recentemente, c’era un uomo chiamato Ōtori Ichibei. Non era propriamente collegato con alcuna famiglia di samurai, contadini, artigiani o mercanti. Era sempre accompagnato da giovani che favorivano costumi devianti. Si attribuivano l’un l’altro un virile valore, andavano sempre blaterando di eroiche imprese e si trovavano sempre coinvolti in situazioni pericolose. Sentendo parlare di lui i giovani esclamavano: ‘Ichibei aiuterà coloro che gli chiedono aiuto, anche a costo della sua vita’. Ichibei non era un cittadino né un samurai, bensì una persona poco comune.7

Ōtori Ichibei è, dunque, una persona non inquadrabile all’interno della gerarchia sociale di matrice confuciana adottata dai Tokugawa: questo aspetto non sfugge all’autore della cronaca che, anzi, lo sottolinea in quanto primo elemento caratterizzante la sua devianza.

Nel 1612 il suo gruppo, a Edo, è protagonista di un fatto di sangue che fa clamore: alcuni dei suoi uccidono uno hatamoto, Shibayama Gonzaemon Masatsugu, per vendicare la morte di un loro compagno, servitore di Shibayama e da questi ucciso proprio perché kabukimono. Anche se a Shibayama era garantito dalla legge dei Tokugawa il diritto di uccidere un proprio servitore, per il giuramento di mutua assistenza i suoi compagni non esitarono a vendicarlo. Catturato in quanto capo della banda, Ōtori Ichibei fu appeso e torturato per fargli rivelare i nomi dei suoi sodali. Secondo la cronaca di Miura Jōshin, Ichibei in un ultimo sussulto di orgoglio, avrebbe acconsentito, iniziando a elencare i nomi di tutti i daimyō, “persone della stessa risma”. Giustiziato insieme a circa trecento membri del suo gruppo, Ichibei divenne da subito un personaggio leggendario. Celebre il suo motto inciso sulla sua lunga, lunghissima katana: “25 anni: ho vissuto troppo a lungo! Ichibei”. Un motto ricorrente fra i kabukimono e già presente in un dipinto del 1604:8Ikitsugi taruya! Ho vissuto troppo a lungo!”.

Un altro personaggio celebrato dalle cronache e dalla cultura popolare di epoca Edo è Banzuiin Chōbei (1622-1657), leggendario machiyakko di grande forza e coraggio che, nel 1657, è ucciso dal capo di un gruppo di hatatamoyakko, Mizuno Jūrōzaemon: la loro memorabile rivalità dopo aver infiammato le cronache dell’epoca divenne protagonista di un tardo dramma kabuki9 per poi alimentare prodotti della cultura pop del XX secolo.10

Fenomeno storico e fenomeno sociale urbano, quello dei kabukimono, è, anche e forse prima di tutto, un fenomeno estetico, riscoperto e valorizzato per il suo impatto sulla moda e sul costume dal critico e storico dell’arte Tsuji Nobuo (nato nel 1932) che, con i suoi lavori, ha contribuito a rendere più articolata la nostra conoscenza delle idee estetiche nel Giappone moderno. Tsuji Nobuo, infatti, è stato il primo studioso a riconoscere la vastità della questione e gli artisti ispirati dal senso di eterodossia e giocosità implicito nel termine kabuku, inserendo questo fenomeno in quell’ideale linea rossa di trasgressione e eccentricità che attraversò l’arte giapponese nei secoli, dal paravento di Hikone al superflat di Murakami Takashi.

Come si è detto, l’estetica kabuku nasce come una sorta di edonismo che caratterizzò gruppi di cittadini comuni e rōnin eccentrici che inalberavano atteggiamenti irriverenti, arroganti, magniloquenti, vestivano in modo bizzarro e andavano in giro per le strade delle città in bande di attaccabrighe.

Questo loro atteggiamento temerario venne a essere identificato con un nuovo tipo di eleganza stravagante di tipo furyū detta kabuku, ossia bizzarra, strana, eccentrica, “inclinata”. La parola kabuku implica ribellione contro gli atteggiamenti sociali e artistici convenzionali, con una forte connotazione di rottura delle norme del comportamento sessuale comparabili a quelle definite oggi “queer”.

Un dipinto dell'inizio del XVII secolo noto come il “paravento di Hikone” 11 è un esempio visivo particolarmente famoso e spesso citato dell'aspetto del kabukimono; la figura centrale non solo è vestita in modo insolito, ma in effetti si piega o si inclina in modo eccentrico.

Alcune delle caratteristiche stilistiche associate al kabukimono includevano capelli tenuti lunghi ma non raccolti in un codino, acconciature audaci e insolite, barbe incolte, abbigliamento vistoso con combinazioni di colori sgargianti, spade di insolita lunghezza con tsuba (guardiamano) ed elementi decorativi esageratamente grandi, e capi e accessori di gusto europeo, come collari in velluto, cappe in lana alla moda iberica, rosari, croci.

Nel 1615, lo shogunato bandì esplicitamente una serie di comportamenti e modi di vestire nel tentativo di reprimere i kabukimono, percepiti come distruttivi. Oltre alle loro rumorose attività per le strade, i kabukimono rappresentavano uno sconvolgimento delle norme sociali in quanto spesso dimostravano una lealtà più forte l'uno verso l'altro rispetto ai loro signori feudali o ai loro clan guerrieri.

Le vesti non dovrebbero confondere. Le differenze fra signore e vassallo, fra superiore e inferiore dovrebbero essere distinguibili… I costumi di guerrieri e servi sono diventati di recente troppo lussuosi e decorativi, con l’uso di broccati. Che si provveda a tenere sotto controllo queste tendenze, poiché non seguono i modi antichi.” sanciva il Regolamento per le Casate militari (Buke shohatto), emanato nel 1615.12

Le leggi e provvedimenti volti a reprimere il fenomeno, percepito come pericoloso, si susseguirono per tutto il XVII secolo: alcune, di carattere suntuario, erano volte a colpire fogge di vesti e acconciature e l’uso di beni di importazione come il tabacco, altre proibivano esplicitamente l’ingaggio o l’ospitalità di questi devianti, la costituzione, nei vari feudi, di questi “gruppi privati” e il comportamento rissoso. Per scongiurare le intemperanze di questi soggetti nel 1629, a Edo, si stabilì un prima rete di posti di guardia nei quartieri delle residenze guerriere e in quelli in cui risiedevano mercanti e artigiani: a fine secolo il numero di questi punti di controllo superava il migliaio. Ogni giorno da due a quattro membri della polizia shogunale presidiavano il proprio posto di guardia mentre la notte da 6 a 8 ufficiali pattugliavano le strade del proprio quartiere fermando qualsiasi individuo sospetto. Ciò nonostante gli scontri urbani violenti non accennarono a diminuire. 13

A partire dal 1651 la polizia shogunale mise in essere una serie di retate con lo scopo di sventare possibili colpi di mano da parte di queste bande, dopo che era stato scoperto il tentativo di rivolta di un gruppo di rōnin capeggiati da Yui Shōsetsu e Marubashi Chūya.14

I kabukimono costituivano per il governo shogunale un gruppo antisociale potenzialmente ribelle, una minaccia incombente.

Le misure repressive andarono a colpire anche i daimyō i quali, con quanta convinzione non è dato sapere, abbandonarono gradatamente la passione per la cultura kabuku. Ciò nonostante, a volte assoldavano ancora servitori che vestivano e si atteggiavano come kabukimono.

Di conseguenza ordinanze come quelle del 1617 e del 1632 proibirono ai samurai di alto rango di farsi vedere in pubblico con questi personaggi al seguito.

Un esempio è quello del feudo di Kaga in cui il daimyō, Maeda Toshinaga, prescrisse ammende dettagliate per chi impiegava kabukimono: proporzionate al reddito del vassallo colpevole, potevano arrivare fino a 30 pezzi d’argento.

Resta da osservare come, a livello shogunale, le nuove ordinanze che si susseguivano, ad esempio quella del 1645, lamentassero ripetutamente che gli editti emanati in precedenza fossero stati ignorati.

Gli innumerevoli provvedimenti messi in atto dal bakufu Tokugawa per reprimere il fenomeno e far rientrare nei ranghi i giovani devianti ottennero alla fine un risultato: si reputa infatti che il fenomeno kabukimono15 si sia estinto intorno alla fine del XVII secolo. Una retata di duecento membri di un gruppo noto come Daishōjingigumi, ossia “Banda degli dei maggiori e minori" e l’esecuzione di undici dei suoi capi nel 1686, sotto lo shogunato di Tsunayoshi (r. 1680-1709), è descritta come l’ultima grande azione contro i kabukimono.

Ora le loro gesta sopravvivevano nelle storie del teatro kabuki, che ne sublimavano e ne ingigantivano le imprese, alimentando un mito, quello dell’otokodate 男伊達 (da otoko 男 “uomo” e tateru 建てる “stare in piedi”, ossia l’uomo che si erge in piedi combattendo le ingiustizie) che avrebbe avuto, nel secolo successivo, uno straordinario successo sui palcoscenici di Edo.


Bibliografia

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Lee A. Butler, Tokugawa Ieyasu's Regulations for the Court: A Reappraisal in Harvard Journal of Asiatic Studies, Dec., 1994, Vol. 54, No. 2 (Dec., 1994), pp. 509-551.

IKEGAMI Eiko, The Taming of the Samurai. Honorific Individualism and the Making of Modern Japan, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1997, pp. 203-2011 .

IKEGAMI Eiko, Bonds of Civility. Aesthetic Networks and the Political Origins of Japanese Culture, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 260-263.

Gary P. Leupp, The Five Men of Naniwa: Gang Violence and Popular Culture in Genroku Osaka in James L. McClain, Osamu Wakita (eds.), Osaka, the Merchant's Capital of Early Modern Japan, Cornell University Press, 1999.

Gary P. Leupp, Servants, Shophands, and Laborers in the Cities of Tokugawa Japan, Princeton, Princeton University Press, 1992.

A. B. Mitford [Lord Redesdale], Tales of Old Japan, Rutland, Vt., Charles E. Tuttle, 1966, pp. 90-141.

Tsuji Nobuo, History of Art in Japan, New York, Columbia University Press, 2005.

Tsuji Nobuo, Lineage of Eccentrics: Matabei to Tsuneyohi, Tokyo, Kaikai Kiki Co., Ltd, 2012.


Note

1. Gli hatamoto erano i vassalli diretti dello shōgun. ↩︎

2. Yakko 奴 sta per “servitore” o, anche “fantaccino”. ↩︎

3. Cfr Ikegami Eiko, Bonds of Civility, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, p. 261. ↩︎

4. David R. Ambaras, Bad Youth: Juvenile Delinquency and the Politics of Everyday Life in Modern Japan, Berkeley, University of California Press, 2006, p.11. ↩︎

5. L. A. Butler, Tokugawa Ieyasu's Regulations for the Court, in Harvard Journal of Asiatic Studies, ¶ Dec., 1994, Vol. 54, No. 2 (Dec., 1994), p. 521. ↩︎

6. Ikegami Eiko, Bonds of Civility, cit., p.261. ↩︎

7. Miura Jōshin (1565?-1644), da Keichō kenmonshū (Cronaca delle ispezioni dell’era Keichō), citato in Ikegami Eiko, Bonds of Civility, cit., p. 261. ↩︎

8. Si tratta del paravento a 6 ante di Iwasa Matabei (1578-1650), Hōkokusai Matsuri, The Tokugawa Art Museum, Nagoya. ↩︎

9. Ossia Kiwametsuki Banzui Chōbei di Kawatake Shinshichi I (1881), rivisto poi da Kawatake Shinshichi III nel 1891, dramma di ambientazione domestica (sewamono) in 4 atti. ↩︎

10. La vicenda di Chōbei e quelle di altri otokodate sono raccontate nel classico Tales of Old Japan (1871) di Algernon Mitford (Lord Redensdale). ↩︎

11. Si tratta del paravento a 6 ante un tempo attribuito a Iwasa Matabei (1578-1650) ma in realtà di autore anonimo, Scena di genere (Shihon Kinjichakushoku Fuzokuzu), custodito nella collezione II Naochika presso il museo del castello di Hikone (prefettura di Shiga) e considerato tesoro nazionale. ↩︎

12. Citato in Ikegami Eiko, Bonds of Civility, cit., p. 263. ↩︎

13. Cfr G.P. Leupp, The Five Men of Naniwa in J. L. McClain, Osamu Wakita (eds.), Osaka, the Merchant's Capital of Early Modern Japan, Cornell University Press, 1999, p. 129. ↩︎

14. Cfr. George B. Sansom, History of Japan, 1615-1867, Rutland, Vermont & Tokyo, Japan, Charles E. Tuttle Company, 1990 (1a ed. 1963), p. 54 e seguenti. ↩︎

15. Naturalmente gruppi di devianti e marginali continuarono a esistere nel Giappone moderno e sarebbero andati a costituire quel brodo di coltura da cui emergerà nei secoli successivi la malavita organizzata. ↩︎

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