Mettersi in viaggio
Strani incontri lungo la Tōkaidō

Rossella Marangoni -
Mettersi in viaggio
Pellegrini a cavallo presso Ise (da Jippensha Ikku, Kane no waraji, 1814 circa).

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Tutto iniziava all’alba, al Nihonbashi, il ponte del Giappone, nel cuore di Edo. Da lì partivano tutte le strade del Giappone di periodo Tokugawa (1603-1868) e di quelle strade la Tōkaidō (“strada del mare dell’est”), era la più importante: collegava infatti la capitale dello shōgun, Edo, alla capitale imperiale, Kyōto. Da lì arrivavano, oltre ai prodotti della fertile pianura del Kansai (allora chiamato Kamigata), gli inviati dell’imperatore, le ambascerie degli Olandesi e i grandi signori delle province occidentali che dovevano sottoporsi periodicamente alla pratica delle residenze alternate (sankinkōtai). Lungo la Tōkaidō i daimyō passavano e ripassavano con le loro sfarzose processioni, i loro ricchi equipaggiamenti adeguati al rango. Il seguito del feudatario era commisurato alla grandezza dei suoi possedimenti, giungendo fino a ventimila uomini, che tutti viaggiavano con regale solennità. A questo proposito converrà ricordare che durante il passaggio dei cortei dei daimyō, alcuni personaggi, reclutati sul posto, provvedevano a rammentare al popolino che doveva scoprirsi il capo e prosternarsi nella polvere al passaggio del signore e dei suoi vassalli…

Ma oltre a cotanti personaggi, lungo i 514 chilometri della Tōkaidō si potevano incontrare altri tipi di viaggiatori che, meno fortunati dei guerrieri (gli unici ad andare di diritto a cavallo) e essendo poco provvisti di denaro (i ricchi mercanti il cavallo potevano affittarlo) erano costretti a incamminarsi di buon passo per non farsi sorprendere dalla notte lontani da una locanda. Eppure di locande ce n’erano parecchie perché il governo shogunale aveva pensato a tutto: a lastricare la strada, a bordarla di sugi (Cryptomeria japonica) per provvedere all’ombra nelle lunghe e afose giornate estive, a indicare le distanze segnalando ogni ri (circa 4 chilometri) con una pietra e, soprattutto, a stabilire lungo il percorso 53 stazioni di posta, ognuna con i suoi uffici del dazio, le sue locande (yodoya) con cameriere e prostitute stanziali, ristoranti, servizi di affitto portantini e cavalli, e posti letto a buon mercato che venivano occupati subito.

Per questo le guide consigliavano di partire di buon mattino e di buona lena. Esistevano delle guide (meishozue) che davano le distanze e, in dettaglio, recavano le stazioni, le locande, i siti celebri da visitare (meisho), le tariffe per i servizi di trasporto e il passaggio dei guadi, i nomi degli ufficiali che gestivano ogni stazione, e inoltre consigli medici, di prudenza e sull’abbigliamento più adatto, e sugli oggetti indispensabili: niente era lasciato al caso. Fra i consigli di questi manuali per viaggiatori vi è quello di portarsi dietro del pepe in grani e “prendere 1 o 2 grani appena alzati, rimedio sovrano contro le insolazioni in estate, i raffreddamenti sotto la neve, eccetera”. Insomma, una panacea. Non solo, era caldamente raccomandato di intraprendere il viaggio solo se muniti di: tre salviette, una grande pezza di stoffa per la testa o un largo cappello di paglia, un ventaglio pieghevole, un set per la scrittura (pennello e contenitore per inchiostro in un astuccio da collegare all’obi), fazzoletti di carta, grande portamonete possibilmente a banda ventrale, cura-orecchie, piccolo punzone, piccolo astuccio contenente una pietra da cambiavalute, piccolo peso, un abaco, due quadrati di stoffa per trasportare oggetti (i furoshiki), un bentō per il cibo, occorrente per cucire, medicine, eccetera. I più prudenti potevano portare con sé in viaggio uno spadino della lunghezza massima di 1 piede e 8 pollici per proteggersi dai cattivi incontri. Spesso, però, ladri e malfattori recavano con sé katana che potevano essere lunghe 2 piedi e 5 pollici, rendendo inutili le precauzioni dei viaggiatori comuni. E comunque meglio ascoltare le raccomandazioni di una guida dell’epoca: “Diffidate degli allegri chiacchieroni che vi propongono di camminare in compagnia! Non prendete mai medicamenti da sconosciuti! È pericoloso prendere scorciatoie!” Difficile, però, sfuggire alle tante insidie del viaggio. Ci pensavano medicastri e ciarlatani, che arrivavano a proporre scenette comiche o storielle pur di vendere le loro pillole miracolose e gli unguenti più balsamici per i piedi provati dalla lunga marcia; ci pensavano mercanti ambulanti di ogni sorta, che si fermavano nel recinto di templi e santuari o davanti agli ingressi degli stessi per esporre la loro merce in bancarelle improvvisate, o che recavano direttamente la merce sulle spalle o su un cavallo. Spesso venivano assimilati al mondo della delinquenza spicciola a causa dell’ambiguità di certi piccoli commerci. C’era poi una gran varietà di artisti ambulanti (saltimbanchi, mangiatori di fuoco, cantastorie, ecc.) che proponevano spettacolini diversi. A volte, però, si trattava di vere e proprie compagnie itineranti di attori, che portavano il kabuki sui palcoscenici di provincia, spesso a un buon livello per l’epoca. Avevano il permesso del daimyō del feudo attraversato e venivano spesso invitati a recitare in sua presenza. Attori e saltimbanchi sono fra i soggetti ricorrenti dei netsuke per la varietà delle pose che li contraddistingue. Di personaggi itineranti, la Tōkaidō era piena: non solo feudatari accompagnati da lunghi cortei di guerrieri loro vassalli, concubine e servitori vari, ma anche molti religiosi che si mescolavano abilmente ai pellegrini e a volte non esitavano ad abbindolare i più creduloni. C’erano i bonzi, monaci buddhisti che percorrevano in massa le strade per raccogliere le sottoscrizioni per la costruzione di templi, vero, ma si può immaginare quanti personaggi poco raccomandabili si spacciassero per monaci. C’erano i komusō, monaci itineranti che suonavano il flauto (shakuhachi) come forma di meditazione (appartenevano alla scuola zen fuke, poi abolita, proprio a causa degli abusi, dal governo Meiji) ed elemosinando. Vestivano un copricapo di paglia simile a un cesto (chiamato fukaamigasa) che li rendeva irriconoscibili. Appartenevano alla classe dei bushi e quindi erano liberi di viaggiare ovunque, non dovevano pagare per i traghetti e per entrare nei teatri. Erano obbligati a muoversi da soli o al massimo in coppia, non potevano stare in una località per più di una notte e non avevano il diritto di viaggiare in palanchino o a cavallo. Non gli si poteva chiedere di mostrare il volto e potevano quindi tenere sempre il loro copricapo. Ma, a volte, sotto questo travestimento si nascondevano i malviventi per sfuggire alla polizia la quale, a sua volta, spesso reclutava spie facendole travestire da komusō. C’erano poi gli oshi, religiosi e al tempo stesso faccendieri itineranti, che attraversavano le province per far proselitismo e pubblicizzare i poteri sacri di templi e santuari e attirando così i visitatori.

Non mancavano altri personaggi interessanti: ad esempio i sekizoro, esorcisti itineranti che comparivano nei villaggi solo nel periodo di Capodanno a liberare dai demoni e ad augurare la buona fortuna. Mentre lanciavano a gola spiegata i loro scongiuri si accompagnavano con strumenti come lo shamisen e i tamburi (taiko). La loro era una professione collegata al mondo del sacro. O ancora gli zatō, uno dei soggetti prediletti dai carvers dei netsuke. Il nome in origine indicava il grado più basso della confraternita dei bonzi ciechi che suonavano il biwa (tipo di liuto), riconosciuta dal governo shogunale. In seguito indicò dei ciechi vestiti da bonzi, la testa rasata, che si sostentavano cantando delle canzoni accompagnandosi con strumenti vari (biwa, flauto shakuhachi, shamisen), narrando storie epiche, praticando i massaggi o applicando gli aghi per l’agopuntura. Si trattava di una professione itinerante per eccellenza e proprio per questo a volte il potere non disdegnava di far ricorso ai loro servizi come spie. Certo le spie per eccellenza erano i ninja, una categoria di uomini addestrati soprattutto allo spionaggio e all’assassinio e che sarebbe stata creata, secondo la leggenda, nelle montagne fuori Kyōto e nella provincia di Iga (area del lago Biwa) dove interi villaggi si consacravano a questa attività. Esperti in ogni tipo di travestimento, capaci di ogni astuzia e di ogni acrobazia, usavano ogni possibile arma non nobile: pugnali, veleni, bombe incendiarie, ferri da lancio (shuriken, shaken), ecc.

Anche il fascino femminile poteva portare alla perdizione e lasciare il malcapitato viaggiatore in serie difficoltà… Se le goze, le cantanti cieche di strada, si limitavano a narrare strazianti storie d’amore o a intonare antiche ballate (le saibara), giocose o allusive, per ricevere in cambio qualche moneta, le bikuni, monache buddhiste (lett. “donna che ha preso i voti”) a volte si rivelavano di tutt’altra natura. Se nel medioevo giapponese il termine indicava anche le cantanti girovaghe che assumevano la veste della bikuni per percorrere il paese, nel periodo Tokugawa la professione di cantante itinerante si degradò fino alla mera prostituzione. In linea di principio, però, le bikuni percorrevano le strade del Giappone con la missione edificante di raccogliere le sottoscrizioni per l’erezione dei templi, anche prostituendosi. I limiti di questa attività sono perciò indefinibili. In teoria, però le bikuni cantavano accompagnandosi con il binzasara, uno strumento fatto di bambù tagliato a strisce, e mendicando riso e cereali. Ma chi si nascondeva, in realtà, sotto le loro vesti?

Per i viaggiatori sprovveduti il viaggio lungo la Tōkaidō si rivelava una vera e propria avventura, ricca di insidie ma anche carica di promesse… Certo è che a volte si incappava in qualche cattiva compagnia e se ne pagava lo scotto: se si incontravano sul proprio cammino dei goma no hai (letter. “cenere delle tavolette votive”), questo era certo. La colorita espressione usata per definirli indicava i ladri che si travestivano da viaggiatori per rubare nelle camere delle locande (sui cui tatami dormivano insieme spesso più viaggiatori). In origine il termine indicava gli scrocconi che si travestivano da pellegrini del monte Koya per vendere ai fedeli creduloni la cenere miracolosa delle tavolette votive che, secondo loro, erano state bruciate dal santo fondatore dei monasteri del Monte Kōya, Kōbō Daishi. Il termine andò poi a indicare i bonzi furfanti che si appropriavano del denaro e dei beni dei fedeli e anche, inutile dirlo, i malviventi che depredavano i viaggiatori della Tōkaidō, ricchi o modesti che fossero.

Non restava allora che raccomandarsi ai kami e ai buddha. Forse per questo lungo la Tōkaidō vi erano molti altarini e, vicino a passi montagnosi pericolosi o a luoghi desolati, si trovavano statue in pietra di Jizō bosatsu, divinità protettrice dei bambini e dei viandanti, e Kannon, il bosatsu della compassione. Il loro aiuto avrebbe fatto raggiungere sani e salvi l’agognata destinazione.




Bibliografia

François et Mieko Macé, Le Japon dEdo, Paris, Les Belles Lettres, 2006.

Jippensha Ikku, A pied sur le Tōkaidō (Tōkaidōchū hizakurige, 1802), Arles, Philippe Picquer, 2011.

Nishiyama Matsunosuke, Edo Culture, Honolulu, Hawai’i University Press, 1997.

Laura Moretti (a cura di), Chikusai il ciarlatano, Venezia, Cafoscarina, 2003.

Philippe Pons, Misère et crime au Japon, du XVIIe siècle nos jours, Paris, Gallimard, 1999.

Jilly Traganou, The Tōkaidō Road. traveling and representation in Edo and Meiji Japan, London, RoutledgeCurzon, 2004.

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