Un’indagine su “Mottainai” (prima parte)

Scritto da Rossella Marangoni www.rossellamarangoni.it -

Non devi credere che questo mondo esista per te. Il mondo non è un recipiente per contenerti.

Tu e il mondo siete come due alberi che si ergono fianco a fianco, distaccati ed eretti, senza mai inclinarsi l’uno verso l’altro.

Da parte tua, sai che vicino a te c’è l’albero splendido del mondo, e ne sei felice. Quanto al mondo, è possibile che non si ricordi nemmeno della tua esistenza.

È questo l’incipit del racconto Still Life (Sutīru raifu, 1988)1 di Ikezawa Natsuki, uno scrittore da sempre interessato alla relazione fra uomo e natura e ai rapporti fra le culture.

Ma se è vero che il mondo non è affatto interessato alla nostra singola esistenza, questa ha comunque un forte impatto sull’ecosistema e mi sembra che le vicende degli scorsi mesi siano qui a testimoniarlo. Queste e altre considerazioni mi sono venute alla mente in questo periodo, un’epoca in cui la forzata clausura ha portato tutti a confrontarsi con nuovi possibili scenari futuri, a ripensare alle proprie vite con un occhio di riguardo volto alle mutate condizioni in cui ci troveremo.

Occorre trovare forme di adattamento a condizioni difficili, e questo mi ha naturalmente portata a guardare a come la cultura popolare giapponese ha trovato espedienti per non sprecare risorse, per riutilizzare materiali, per mostrare rispetto e gratitudine per ciò che è stato ricevuto in dono dalla Terra e dall’uomo utilizzato. Tutto questo in Giappone è sintetizzato dall’espressione mottainai 勿体無い (da 勿体 mottai ossia “aria di superiorità, di importanza” e da 無い nai suffisso che esprime la negazione), che potrebbe essere tradotta efficacemente con l’esclamazione “che spreco!”, ma anche con l’invito “Non sprecare!”.

Prima che prevalesse, nel Giappone del dopoguerra, l’attuale associazione con lo spreco, lo sperpero di oggetti materiali e di risorse come cibo ed energia, il termine mottainai aveva connotazioni semantiche diverse. Un dizionario di giapponese arcaico riporta che la storia linguistica di mottainai risale almeno al XIII secolo, quando fu utilizzato in racconti del genere setsuwa bungaku (aneddottica a scopo didattico-morale) con il significato di “guaio”, “danno” e “improprietà”.2 Fu anche evocato in epoca premoderna per esprimere rammarico e delusione o, in altri contesti, gentilezza; in un uso più moderno, la parola pare avesse significato di “indegno” o “immeritevole”, oltre che “empio”, “irriverente”, e, addirittura “profano” o “sacrilego”. Dopo il 1945, invece, l’associazione predominante di mottainai è stata con lo sperpero: di oggetti e di materie prime, arrivando così a incarnare, in quell’unica espressione, tutta una serie di preoccupazioni, dalla sicurezza alimentare alla scarsità delle risorse, al progressivo degrado ambientale, e ad assumere una connotazione di critica a una società dei consumi sempre più materialista e inquinante. Le sfide che il Giappone ha dovuto affrontare alla fine del XX secolo e che fronteggia ora, nel nuovo millennio hanno progressivamente fatto emergere un nuovo, più esplicito modo di esprimere valori ed emozioni e, come afferma Siniawer, ormai mottainai denuncia non l’atto dello spreco, bensì “principi e sentimenti associati alla coscienza dello spreco, come il rimpianto e la vergogna per la perdita delle cose, l'apprezzamento e il rispetto per le cose, nonché per coloro che le hanno fatte, l'empatia e la compassione”.3

Non mi dilungherò, comunque, sull’aspetto linguistico. Mi interessa invece ricordare la pluralità degli ambiti in cui l’idea e la prassi mottainai si sono affermate e come i manufatti creati “senza spreco” dalla cultura contadina della parsimonia e del rispetto sono diventati fonte di ispirazione per le generazioni post-boom e, in seguito, opere d’arte, collezionate e oggetto di studio e di ricerca.

Uno degli aspetti più affascinanti, a mio avviso, della ricchezza di mottainai è la natura duplice della sua origine, che reputo spirituale e pragmatica al tempo stesso. È da questo che vorrei partire.

Ipotesi sui presupposti religiosi

Secondo la maggior parte degli osservatori, il concetto di mottainai troverebbe le sue radici nel pensiero buddhista. Partendo dall’idea di interdipendenza dei fenomeni (sanscrito pratītyasamutpāda, g. innen), ossia l’insieme di meccanismi di interazione sui quali si reggono i fenomeni nelle loro relazioni causali, si giungerebbe alla consapevolezza dell’interconnessione di ogni esistenza su questa terra: le conseguenze delle nostre azioni, quindi, ricadono sul nostro pianeta e sull’intera comunità umana.

Non solo lo sperpero di risorse di uno impoverisce tutti, ma va contro la regola del non attaccamento e dell’umiltà. Al contrario, ciò che deve spingere il monaco e il laico deve essere la frugalità, la parsimonia, il rispetto per le risorse e il loro uso deve essere accompagnato da un senso di gratitudine.

Ogni aspetto dell’esistenza di un monaco buddhista deve essere informato dal principio dell’assenza di sprechi e dalla moderazione.

Ciò è ben esemplificato dalla veste del monaco, il kesa.

Quello originario, chiamato funzōe, era costituito da stracci cuciti insieme, ad imitazione delle vesti del Buddha mendicante, esempio eccelso di austerità e semplicità. Il termine funzōe deriva dal sanscrito pāmsukula-kāsāya, lett. “veste per spazzare gli escrementi”, un’espressione interpretabile come un’abbreviazione per "veste [composta di cenci, che sono stati usati] per spazzar via [ogni genere di robaccia, inclusi] gli escrementi").

Spiega Bernard Faure: “Il tessuto ideale per un kāsāya era un tessuto scartato dagli uomini

e dalle donne a causa della sua impurità. Dōgen, secondo la tradizione del Vinaya, descrive quattro dei dieci tipi di stoffa scartata che possono servire a fare una veste: masticata da buoi, rosicchiata da topi, bruciata dal fuoco, sporcata dal sangue mestruale, sporcata dal sangue del parto, scartata nei santuari, scartata in un cimitero, presentata come offerta, scartata da funzionari del governo, usata per coprire i morti. Dopo essere stati raccolti, tuttavia, questi stracci diventano i materiali più puliti per fare un kāsāya. Questo processo di purificazione (attraverso la tintura) funge da metafora del modo in cui il praticante cerca di risolvere le sue passioni”.4

La preoccupazione buddhista per un’esistenza senza sprechi, di rispetto e riconoscenza, trova il suo esempio più significativo nella vita del monaco zen. Il termine kufū 工夫 gioca in questo senso un ruolo primario. Il suo significato letterale rimanda a “idea”, “espediente”, “trovata”, mentre il verbo kufū suru ha fra i vari significati quello di “escogitare”, “aguzzare l’ingegno”. Come ricorda Dominique Loreau nel suo Art de l’essentiel,5 kufū è utilizzare la propria immaginazione per raggiungere uno scopo senza aver bisogno di procurarsi qualche cosa di supplementare, è fare con ciò che si possiede e apprezzare ciò che si ha utilizzandolo nel miglior modo possibile e evitando così lo spreco.

Le foglie cadute e i rami secchi raccolti nel recinto del tempio sono i soli combustibili. L’acqua è distribuita con una rigorosa economia. Ecco due principi da rispettare se si desidera apprendere la dhyāna: non sprecare l’acqua né la fonte di energia. È qui che comincia la riconoscenza dovuta ai beni della natura così come a tutti gli esseri viventi.”.6 E ancora: “[Gli antichi] mettevano tutta la loro ingegnosità a sfruttare al massimo i doni della Signora Natura. Questa saggezza inerente alla vita dei monaci zen, che alla nostra epoca chiamiamo “cultura zen” e verso la quale siamo tanto responsabili, è, parlando propriamente, senza confini, anche nel campo dell’igiene alimentare7 scrive nel suo diario di novizio al Tōfukuji di Kyōto, il monaco zen Satō Giei (1920-1967). E altrove aggiunge: “Nei templi zen gli ingredienti della composizione dei pasti sono così poveri che li si può definire come rimasugli da gettare ma, da sempre, è una regola d’oro di ingegnarsi a far di tutto per utilizzarli”.8

Perché anche la preparazione dei pasti, all’interno del monastero zen, non sfugge alla regola della frugalità e del consumo oculato delle risorse, anzi, nelle Istruzioni a un cuoco zen (Tenzo kyōkun, 1237), il maestro Eihei Dōgen (1200-1253) insiste proprio su questo aspetto: “Per prima cosa, dopo il pasto di mezzogiorno, vai negli uffici del priore e del controllore e prendi gli ingredienti per i pasti del giorno successivo: riso, verdure e così via. Dopo averli ricevuti, proteggili e usali con parsimonia, come se fossero i tuoi stessi occhi. Il Maestro Chan Yong del [monastero] Baoning ha detto: "Proteggi e sii frugale con le proprietà del monastero, che sono [come] i tuoi occhi”.9 Stessa cura deve essere impiegata nell’uso degli strumenti di cui ci si serve: “Tratta utensili come pinze e mestoli e tutti gli altri attrezzi e ingredienti con uguale rispetto; maneggia tutti gli oggetti con sincerità, prendendoli e posandoli con cortesia”.

Non solo lo spreco di cibo penalizza l’intera comunità ma rivela una mancanza di gratitudine nei confronti dei donatori. Così racconta il monaco zen Satō Giei: “Ogni grano di riso, ogni moneta è maneggiata con la stessa cura come se queste offerte fossero il sangue e il sudore dei donatori. La colletta del riso, se assicura la sussistenza, lo fa nel modo più giusto: impedisce al corpo di cadere ammalato, ecco tutto. Così è da se stesso che ognuno, cacciando gli oziosi pensieri di lusso, li sostituirà nel corso delle giornate con la riconoscenza crescente di cui il suo cuore è ricolmo”.10

Il rispetto per gli elementi della natura e per gli attrezzi e gli utensili manufatti dall’uomo sono ben vivi e presenti nel corpus di credenze di antica origine poi confluito nello Shintō. Anche se sarebbe poco corretto far ricorso alla definizione di animismo per questa tradizione religiosa complessa e fluida perché, è bene ricordare, kami non è un’anima contenuta in una cosa bensì quella cosa,11 importante per il nostro discorso è tener presente che anche un manufatto può essere kami: una tazza, ad esempio, o una katana, un lanterna, una scopa e, insomma, “qualsiasi cosa venga ritenuta dotata di una forza propria - benevola, neutra o malevola - con cui si entra in rapporto e che si cerca di accattivarsi”.12 È indubbio, però, che, a livello popolare, credenze di tipo animistico fossero presenti nel mare magnum dei culti antichi, con l’idea che ogni oggetto possieda uno spirito (tama), o che possa diventare ricettacolo di un’entità spirituale variamente definita come kami, tama, mononoke. Queste entità non sempre agivano benevolmente nei confronti degli uomini e la loro attitudine, buona o cattiva, dipendeva dalle circostanze: se non correttamente onorate e blandite, queste manifestazioni del divino potevano rivelarsi oltremodo pericolose per gli uomini.

A queste concezioni di tipo animistico si collega il concetto di tsukumogami 付喪神 (lett. “spettro-strumento”). Il termine è composto da tsu ku mo che scritto con i numerali 九 十 九 (9 10 9) assume il significato di novantanove, con riferimento a una persona molto anziana che sta per raggiungere i cento anni, e da kami (gami) che sta per divinità.

Si credeva, dunque, che dopo cento anni di utilizzo un oggetto di uso comune come un contenitore, un utensile, uno strumento di lavoro ricevesse un’energia spirituale e, come tutte le cose con un’anima individuale, sviluppasse uno spirito indipendente e diventasse, quindi, potenzialmente pericoloso, incline com’era a ingannare gli esseri umani.13 Era questa la ragione che spingeva spesso una famiglia di artigiani o contadini a disfarsi di uno strumento dopo novantanove anni di utilizzo.

Secondo Miyake Toshio “si tratta dell’estensione della concezione relativa al carattere animato degli esseri viventi, basata sulla convinzione che qualsiasi entità particolarmente anziana o longeva, possa diventare il ricettacolo di uno spirito. In questo caso, oggetti quotidiani come strumenti musicali, ombrelli, utensili da cucina, subiscono una metamorfosi, fino ad assumere sembianze antropomorfe, zoomorfe o demoniache. Gli tsukumogami possono radunarsi di notte in un piccolo esercito di cento mostri e dar luogo ad una parata che attraversa le strade delle città, terrorizzando i residenti per il pericolo di morte provocato solo dalla loro vista. Queste credenze sono documentate in alcune raccolte di aneddoti didattici (setsuwa 説話) sin dal periodo Kamakura e sono sottoposte ad una prima figurazione nei rotoli illustrati degli hyakkiyagyō 百鬼夜行 (Parata notturna dei cento mostri), molto popolari già dal periodo Muromachi”.14

A quello stesso periodo Muromachi (1336-1573) risale un otogizōshi importante per lo studio del tema, lo Tsukumogamiki (Cronaca degli spettri-strumenti), un testo concepito per l’edificazione morale e spirituale dei fedeli all’interno della scuola del buddhismo esoterico Shingon. Nello Tsukumogamiki gli strumenti e gli utensili, pieni di risentimento dopo essere stati abbandonati dai padroni umani ai quali hanno così fedelmente prestato servizio, diventano spettri vendicativi e omicidi ma, vi si afferma anche, “con il supporto imperiale e buddhista, gli spiriti ribelli imparano a pentirsi dei loro modi malevoli, a entrare in una vita di servizio religioso e, alla fine, a raggiungere la Buddhità”. E questo per mezzo degli insegnamenti e delle pratiche della scuola Shingon che consentirebbero anche a tali esseri non senzienti, come strumenti e contenitori, di raggiungere lo stato di Buddha.15 Dalla stessa cronaca nel più puro spirito sincretico shintō-buddhista apprendiamo che: “Come spettri-strumento, gli tsukumogami rapiscono gli esseri umani e gli animali per cibarsene e celebrano la loro nuova vita con tanta allegria con bevute, gioco d'azzardo e recitazioni di poesie. Decidono quindi di adorare il dio della loro creazione, nominandolo ‘la Grande Divinità che trasforma’ e infine propongono di organizzare una festa shintoista in onore del loro dio, come fanno altri santuari shintoisti”.

Durante il periodo Edo (1603-1868), quando nascono nuove forme di narrazione e rappresentazione che vedono gli yōkai (creature mostruose, spettri)16 sempre protagonisti dell’immaginario popolare, la credenza nello tsukumogami è ancora ben presente.

È ipotizzabile che sia collegata allo sviluppo di un’industria o protoindustria manifatturiera in cui gli artigiani si legavano in corporazioni sostenute da un sostrato religioso che le collegava a un kami particolare, considerato nume tutelare della loro attività. Secondo Lafcadio Hearn, nelle famiglie, fra gli artigiani, nei clan guerrieri si raccomandava di usare la dovuta riverenza verso gli utensili come forma di rispetto per la divinità protettrice degli stessi: “La serva non poteva osare dimenticare la presenza delle divinità della cucina, del focolare, del calderone, del braciere ... alla ragazza che cuciva veniva insegnato a rispettare i suoi aghi .... (e) nelle famiglie dei samurai al guerriero fu comandato di considerare la propria armatura e le proprie armi come cose sacre”.17

All’origine di questi riti e di questo atteggiamento nei confronti degli oggetti possiamo individuare un corpus di credenze shintō-buddhiste che invitano al rispetto del valore intrinseco di un manufatto, alla riverenza e alla gratitudine nei confronti degli oggetti in uso che ha, a monte, la consapevolezza della limitatezza delle risorse a disposizione, ragione per cui li si usa fino a consumarli completamente. A questo atteggiamento va accompagnata la giusta gratitudine, un sentimento che deve portare a ringraziare gli utensili usurati all’estremo e a celebrarli con apposite cerimonie (riti di pacificazione denominati genericamente kuyō) per placare i loro spiriti irati, minacciosi e potenzialmente vendicativi, dall’abbandono prima di bruciarli in un falò e seppellirli poi ritualmente in tumuli a loro dedicati.

Questi riti, destinati a rendere omaggio a utensili preziosi per l’attività umana come pennelli, pettini, aghi, coltelli, erano (e in alcuni casi sono ancora) celebrati alla presenza di sacerdoti shintō, nei recinti templari, con il dovuto omaggio di offerte. Ne sono interessanti esempi il Kushi matsuri, che si tiene ogni anno a settembre presso lo Yasui Konpiragū di Kyōto ed è dedicato ai pettini e agli accessori per capelli, e il rito per gli aghi, Hari kuyō, che si tiene in varie località del Giappone ogni anno l’8 febbraio per ringraziare e depositare gli aghi spezzati e inservibili: a differenza degli altri utensili, ritualmente dati alle fiamme, gli aghi vengono amorevolmente infissi in un panetto di tōfu o di gelatinoso konnyaku.

Un’analoga preoccupazione circa la cura con cui gli utensili devono essere scartati sembra sia presente anche a proposito dei piccoli elettrodomestici di casa. Nel suo provocatorio saggio del 1982, “How to Tell Your Vacuum Cleaner Sayonara”, l’industrial designer Yamaguchi Masatomo ricorda di aver organizzato presso la sede del suo studio, a Tokyo, una sorta di “casa di riposo” per vecchi piccoli elettrodomestici e attrezzature casalinghe: le persone vi inviavano macchine da cucire e suihanki (macchine per cuocere il riso) usati per tanti anni, a volte accompagnandoli con messaggi di questo tenore: “Mi dispiace per lui, non volevo buttarlo”, altre volte allegando l’elenco dei lavori fatti con l’apparecchio o addirittura i nomi dei figli cresciuti con riso cotto da quel particolare suihanki.18

La frugalità, il rispetto per il valore dell’oggetto, la scarsità delle risorse familiari e del villaggio portava le comunità contadine allo sfruttamento estremo degli utensili e degli oggetti della vita quotidiana, degli accessori e delle vesti e alla loro riparazione, al riuso, al riciclo, secondo un’idea, quella di shimatsu 始末 (lett. “inizio e fine”), che è la cultura del compimento della vita di un oggetto utilizzato al massimo delle sue possibilità, fino all’usura definitiva. Secondo l’artista Yanagi Junko, il concetto di shimatsu è frutto della combinazione di quattro fattori: 1) il fatto che il Giappone sia una nazione di isole; 2) che la cultura giapponese sia relativamente omogenea; 3) che non ci sia una singola religione di stato; 4) che il Giappone abbia quattro stagioni abbastanza definite. Secondo Yanagi sono questi i fattori che, prima di altri, hanno dato origine alla preoccupazione dei giapponesi di usare le cose senza sprechi e si trovano anche all’origine dell’estetica collegata al concetto di shimatsu. Del resto, come afferma il maestro tintore Yoshioka Sachio, usare le cose con frugalità richiede inventiva.19

Ed è a questo punto che ritengo di dover introdurre il tema dell’artigianato contadino, evocando quelle che definirei come le radici pragmatiche di mottainai, a cui sarà dedicata la seconda parte di questo intervento.


Bibliografia:

Faure, Bernard, “Quand l'habit fait le moine: The symbolism of the kāsāya in Sōto Zen” in Cahiers d'Extrême-Asie, 1995, Vol. 8, Mémorial Anna Seidel : Religions traditionnelles d'Asie orientale (Tome I) (1995), pp. 335-369.

Dōgen, Tenzo kyōkun in Nothing is Hidden: Essays on Zen Master Dogen's Instructions for the Cook (Tr. Griffith Foulk), Edited by Jisho Warner, Shohaku Okumura, John McRae and Taigen Dan Leighton, New York, Weatherhill Inc., 2001.

Canova Tura Graziana, La cucina zen. La perfetta imperfezione, Toma, Aracne, 2018.

Kasulis, Thomas P., Shinto. The Way Home, Honolulu, University of Hawai’i Press, 2004.

Lillehoj, Elizabeth, “Transfiguration: Man-Made Objects as Demons in Japanese Scrolls” in Asian Folklore Studies, 1995, Vol. 54, No. 1 (1995), pp. 7-34.

Loreau, Dominique, Art de l’essentiel, Paris, Flammarion, 2008.

Miyake Toshio, Mostri dal Giappone, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2014.

Reider, Noriko, “Animating Objects: Tsukumogami ki and the Medieval Illustration of Shingon Truth” in Japanese Journal of Religious Studies, 2009, Vol. 36, No. 2, Vernacular Buddhism and Medieval Japanese Literature (2009), pp. 231-257.

Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen (Unsui nikki, 1972), traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010.

Siniawer, Eiko Maruko, “Affluence of the Heart: Wastefulness and the Search for Meaning in Millennial Japan” in The Journal of Asian Studies, February 2014, Vol. 73, No. 1 (February 2014), pp. 165-186.

Tokuda Kazuo, “The Conquest of Yōkai, Fairies and Monsters — Prologue: Heteromorphs in the East and West”, in The Gakushuin Journal of International Studies, vol. 5, March 2018, pp. 1-36. Disponibile al link: https://core.ac.uk/reader/292919074

Yoneyama Shoko, “Animism: A Grassroots Response to Socioenvironmental Crisis in Japan” in T. Morris-Suzuki, Eun Jeong Soh (eds.), New Worlds from Below, Camberra, ANU Press, 2017, pp. 99-130.


Note

1. In L’uomo che fece ritorno, traduzione di Antonietta Pastore, Torino, Einaudi, 2003, p. 3.↩︎

2. Ōbunsha kogo jiten (8th ed.,1994), p. 1174.↩︎

3. Eiko Maruko Siniawer, “Affluence of the Heart: Wastefulness and the Search for Meaning in Millennial Japan” in The Journal of Asian Studies , February 2014, Vol. 73, No. 1 (February 2014), pp. 166-167.↩︎

4. Bernard Faure, “Quand l'habit fait le moine: The symbolism of the kāsāya in Sōto Zen” in Cahiers d'Extrême-Asie , 1995, Vol. 8, Mémorial Anna Seidel : Religions traditionnelles d'Asie orientale (Tome I) (1995), pp. 347.↩︎

5. D. Loreau, Art de l’essentiel, Paris, Flammarion, 2008, p. 222.↩︎

6. Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen, traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010, p. 78.↩︎

7. Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen, traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010, p. 61.↩︎

8. Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen, traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010, p. 102.↩︎

9. Dōgen, Tenzo kyōkun in Nothing is Hidden: Essays on Zen Master Dogen's Instructions for the Cook (Tr. Griffith Foulk), Edited by Jisho Warner, Shohaku Okumura, New York, Weatherhill Inc., 2001, p. 22.↩︎

10. Satō Giei, Journal d’un apprenti moine zen, traduit du japonais par Roger Mennesson, Arles, Philippe Picquier, 2010, p. 61.↩︎

11. Giuseppe J. Forzani, I fiori del vuoto, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 30.↩︎

12. “The list of these objects is almost endless. However, some objects were more important than others and had a wider distribution, such as the gohei, kezuri kake-shavings and cuttings hung on trees, staffs, etc.-, flags, center or main poles of buildings (especially shrines and homes), straw brushes and brooms, palanquin, festival carts, grave head stones, dolls, masks, shelves used as altars in homes, mirrors, swords, shields, beads, gems, scarecrows, mortars and pounders, winnowers, straw bags, straw sandals, measuring devices, dippers, sickles, plows, hoes, fish hooks, chopsticks, dice, money, chests, the metal around the fireplaces. pot hangers, statues, pictures.”, William Fairchild, “Shamanism in Japan”, in Folklore Studies, Vol. 21 (1962), p. 42.↩︎

13. Noriko Reider, “Animating Objects: Tsukumogami ki and the Medieval Illustration of Shingon Truth” in Japanese Journal of Religious Studies, 2009, Vol. 36, No. 2, Vernacular Buddhism and Medieval Japanese Literature (2009), pp. 231-257.↩︎

14. Miyake Toshio, Mostri del Giappone, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2014, pp. 22-23.↩︎

15. Cfr il saggio di Reider sopracitato.↩︎

16. “Si tratta oggi di un termine usato per indicare convenzionalmente fenomeni o esseri misteriosi, inspiegabili e straordinari, in particolar modo in riferimento a quelli autoctoni premoderni.”, Miyake Toshio, Mostri del Giappone, cit., p. 16.↩︎

17. Lafcadio Hearn, Japan: an attempt at interpretation, New York, Grosset & Dunlap, 1904, pp. 169-170.↩︎

18. In Voices of Japan, n°11, 1982, p. 103.↩︎

19. In “Beauty in frugality. Harmonious paths to the fullest use” in KIE, vol. 28, Autumn/Winter 2011, pp. 34-37.↩︎

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