Le rocce da letterati
Porte che aprono a una diversa visione

Scritto da Vittorio Urbani www.renzofreschi.com -

Si ringrazia Renzo Freschi – Asian Art Milano per aver gentilmente fornito le immagini di questo articolo.

Un ritratto del XIX secolo di un funzionario dell’impero cinese vestito in semplici ma eleganti abiti domestici ci mostra un uomo di età avanzata ma ancora nel pieno controllo di sé e di quanto ha intorno. Siede compostamente in un interno in cui, accanto ad oggetti che indicano una professione intellettuale (libri e un calamaio) e uno stato di agiatezza (un paravento in marmo, vasi di fiori), compare un oggetto bizzarro: un pezzo di roccia contorto posto su un vaso con un piccolo bambù. A prima vista, ciò può sembrare una disposizione floreale puramente decorativa, ma si tratta di qualcosa in più. Questo oggetto è una “roccia da letterato” e sembrerebbe una riproduzione in miniatura di una montagna, o di un paesaggio. Invita l’osservatore a considerare la relazione tra grande e piccolo, vicino e lontano, ad apprezzare la ricca trama di un paesaggio naturale e a riflettere sulle molte contraddizioni causate dalla presenza dell’uomo nella natura.

Erose dagli elementi naturali in forme interessanti, le rocce da letterati erano state collezionate sin dall’antichità dall’élite intellettuale e governativa della Cina come oggetti da contemplazione. Il loro nome originario è gongshi, parola che si scrive in cinese utilizzando i due caratteri per “adorazione” e “pietra”. Oggi più comunemente chiamate rocce da letterati, queste pietre compaiono spesso nella pittura tradizionale. Apprezzati come oggetti per la meditazione, i gongshi conferivano ai loro proprietari uno status colto e raffinato, sono stati collezionati in gran numero in Cina sin da tempi remoti, comparendo anche nei cataloghi delle collezioni imperiali.

Qual è il significato di questi curiosi oggetti? Che rapporto hanno con l'ambito dell’“arte” come noi la intendiamo, e – in particolare – con la scultura? Considerate nella cultura tradizionale cinese come le ossa della terra, e anche come le radici pietrificate delle nuvole, è interessante che le rocce (e quindi le pietre) siano non solo una rappresentazione di montagne, paesaggi naturali ecc, ma anche un vero, autentico pezzo di natura. Una pietra ha milioni di anni, come la montagna da cui proviene e che rappresenta o evoca. Non è separata dalla natura: è la natura stessa.
Vi sono molte testimonianze letterarie di rocce rare e interessanti esemplari collezionati ed esposti, principalmente nei giardini, sin dalla dinastia Tang (618-907). Ma è a partire dalla dinastia Song (960-1279) che il collezionismo di rocce divenne un fenomeno diffuso tra i letterati e l’élite governativa. Cominciavano inoltre a comparire pietre da meditazione più piccole, più adatte agli interni.

L’imperatore Song Huizong (m. 1135) possedeva una famosa collezione di 65 pietre rare. Durante la successiva dinastia Ming (1368-1644), il collezionismo di pietre si accompagnò ad una crescente attività letteraria consistente in descrizioni o poesie su di esse, e nella pittura di raffigurazioni di pietre celebri o immaginarie, ideali. Intellettuali, poeti, e ufficiali governativi collezionavano rocce, scrivendo e scambiandosi lettere e poesie su di esse.
Nel Suyuan Stone Catalogue, pubblicato in quattro volumi nel 1613 e costituente il più grande antico catalogo illustrato di rocce, il suo redattore Lin Youlin (1578 – 1647) dice che, “una roccia ha forma e spirito. La forma può essere bellissima, bizzarra o interessante, ma il suo aspetto è solo un mezzo per arrivare allo “spirito” della roccia: una roccia bellissima senza spirito non avrebbe alcun valore, sarebbe solo una pietra”.

Lin Youlin scrive anche, nell’introduzione al suo Catalogue: “Una volta dissi che gli esempi di calligrafia, i dipinti famosi, le iscrizioni su antichi bronzi e [...] il collezionismo di rocce possono tutti aiutare la gente a raggiungere il distacco”. La contemplazione delle rocce porta l’osservatore a innalzare il suo spirito, a raggiungere un livello superiore di comprensione della natura e dell’unitarietà del mondo, e a conquistare una semplicità filosofica e una libertà intellettuale. In tal senso il contemplatore ha una relazione complessa con la pietra, la quale, senza la comprensione di questo contesto, sembrerebbe soltanto una folle forma di eccentricità. È famoso il fatto che il poeta e funzionario di stato Mi Fu (1051-1107, soprannominato dai suoi contemporanei Mi il Folle a causa della sua passione smodata per le rocce), trovata una roccia dalla forma interessante nel corso di un viaggio, si fermò davanti ad essa in meditazione, inchinandosi davanti ad essa e chiamandola “Pietra anziana (sorella)”. In modo più raffinato e melancolico, in tarda età, Bai Yuyi (772-846, poeta e governatore sotto la dinastia Tang) scrisse un poema dal quale citiamo alcuni versi commoventi: “… Mi rivolgo alle rocce “picchi gemelli”, chiedo loro se accompagnerebbero questo vecchio. Le rocce, pur se incapaci di parlare, mi promettono di restarmi amiche fedeli”.

La bellezza della roccia non deriva tanto dalla “bellezza” della forma, ma dalla sua capacità di suscitare sentimenti di maestosità, di solitudine, di distacco dalle miserie del quotidiano, che si possono provare nella camminata solitaria, tra lontane montagne desolate “Le rocce, grazie al loro silenzio, durezza e immobilità, hanno la personalità potente degli antichi eroi; sono indipendenti e distaccate dalla vita come saggi eremiti; per la loro inimmaginabile antichità ben rendono l’idea dell’eterno”.

Essendo ambìti oggetti da collezione, i gongshi sono da annoverare tra le cose rare e belle, tra gli oggetti che abbelliscono le case delle élite eleganti, colte e raffinate. Con queste premesse, si può considerare arte un gongshi, e – ai fini di questo testo – può entrare a far parte dell’ambito della scultura?

I gongshi, essendo elementi di un’arte cinese altamente figurativa, sono interessati dal problema dell’astrazione, e per di più di un’astrazione non intenzionale (in fondo le rocce sono un prodotto accidentale della natura) che costituisce una sfida visiva e uno stimolo ad entrare in un diverso ambito di significato e di rappresentazione. Quando una pietra può esser vista come una rappresentazione di lontane cime montuose, la consideriamo un modello in miniatura di una caratteristica originale naturale, con l’interessante aggiunta che è fatta della stessa materia. Ma quando può esser vista come la rappresentazione di “nubi che si gonfiano” in un pomeriggio estivo, o come una “tigre in corsa”, ci troviamo di fronte a una diversa modalità di lettura, fortemente simbolica e poetica. Inoltre, in contrasto con tutta una tradizione di scultura occidentale, che si preoccupa molto della superficie, le rocce da letterato cinesi spesso offrono la possibilità di guardare dentro – tramite buchi, fessure, passaggi o la trasparenza di alcune pietre; rappresentano uno spazio interno; suggeriscono che ci possa essere un mondo senza limiti da contemplare all’interno di un oggetto ben definito.

Spesso la pietra somiglia non solo a una montagna, ma a nuvole, pioggia, ruscelli, o all’effetto della luce lunare. Parlando in generale, i gongshi sono più simili alle montagne come vengono rappresentate nella pittura cinese che alle montagne in natura: il loro potere di raffigurazione è filtrato dalla tradizionale sensibilità poetica e dallo stile artistico cinese. Una citazione da un bellissimo testo dello scrittore Ming Chen Chiju (1588-1639), che descrive il giardino ideale, può essere utile in questo senso:

… Oltrepassato il cancello c’è un sentiero e il sentiero dev’essere serpeggiante. Ad una svolta del sentiero c’è un paravento da esterno e il paravento dev’essere piccolo. Dietro il paravento c’è un terrazzamento e il terrazzamento dev’essere pianeggiante. Sui bordi del terrazzamento ci sono fiori e i fiori devono essere freschi. Oltre i fiori c’è un muro e il muro dev’essere basso. Accanto al muro c’è un pino e il pino dev’essere vecchio. Ai piedi del pino ci sono rocce e le rocce devono essere curiose. Sopra le rocce c’è un padiglione e il padiglione dev’essere semplice. Dietro al padiglione ci sono i bambù e i bambù devono essere sottili e radi. Alla fine dei bambù c’è una casa e la casa dev’essere appartata…

Le rocce devono essere curiose … pittoresche. L’eco di questo verso ci dice tutto ciò che ci occorre sapere. È la rappresentazione pittorica delle montagne e del paesaggio, il vero riferimento visivo dei gongshi, più che la natura stessa. Infatti, i gongshi non dovrebbero essere considerati una semplice riproduzione in miniatura delle montagne. Negli antichi testi sulle rocce, le qualità importanti di una buona roccia sono spesso la grana (fenditure, pieghe) della superficie, o la superficie che appare scura e lucida come fosse bagnata: aspetti che rendono la roccia simile a nuvole intorno alle cime, banchi di nebbia, ruscelli che corrono sulla sua superficie. È tutta una raffigurazione della natura che prende vita davanti agli occhi del contemplatore. Oltre agli aspetti fisici delle rocce, come colore, forma e “grana,” si possono considerare altri aspetti. Ad esempio, alcune rocce danno un suono bellissimo. Descrivendo una roccia ricevuta in regalo, Cao Yin (1658-1712) scrive: “… quando la si percuote, risuona come il bronzo”.

Questa sensibilità si riflette anche nei nomi dati a molte rocce da letterato, talvolta molto descrittivi come “Nube che si gonfia”, “Collina fragrante” o “Picchi gemelli”. Ma a volte l’immaginazione poetica prevale su quella descrittiva: nomi come “Tigre che corre tra le nuvole” o “Fedele amico” testimoniano questa sensibilità sempre in equilibrio tra il naturale e il poetico. Le rocce di aspetto più astratto potevano più facilmente assumere nomi poetici in quanto, come dicevano gli antichi letterati, una “affinità spirituale” era la cosa più importante.

È interessante che Su Shi (vissuto durante la dinastia Song, 960-1279) esaltasse le rocce “con grana fine ma con una brutta forma”. Riteniamo che questa bruttezza significasse una somiglianza non facile, un’associazione non troppo ovvia tra la roccia e un aspetto del mondo naturale, e anche una roccia che solo un vero amatore poteva capire e apprezzare. In questo senso, la bruttezza è come uno scrigno che nasconde e preserva la vera virtù. È interessante il fatto che il problema della bellezza come elemento fuorviante del vero valore spirituale sia presente in molte culture: in questo senso, il riferimento alla “bruttezza” come a qualcosa di positivo nell’apprezzamento delle pietre cela un memento morale di valore universale.

Provenendo da cave, dal fondo di fiumi e laghi, o trovate sui monti, le pietre per la meditazione venivano spesso “aiutate” ad ottenere un aspetto migliore con opportuni interventi, ma idealmente non dovevano mostrare tracce di artificialità. Talvolta, come nel caso di rocce raccolte dal fondo del Lago Taihu, se c’era un’imperfezione da correggere con lo scalpello, la roccia veniva poi nuovamente immersa nel lago per alcuni anni, in modo che i segni dell’intervento artificiale fossero cancellati dalla naturale erosione delle correnti. Il problema di fin dove sia consentito l’intervento dell’uomo nel dare forma a questi oggetti è un punto critico.

In diversi passi dei suoi testi, Lao Zi (chiamato anche Lao Tse, e soprannominato il Bambino Vecchio dai suoi contemporanei) insiste sul fatto di non scolpire le rocce: l’idea è che il miglior lavoro artistico, come il miglior lavoro della natura, non dovrebbe mostrare segni di sforzo e artificiosità, proprio come un fiume sinuoso o una cima montana incoronata dalle nuvole appare naturale e senza forzature.
Un problema diverso, stranamente non molto dibattuto, è quello della comparsa molto tardiva sul mercato dell’arte europeo. Sin da tempi relativamente antichi, l’Europa e in seguito l’America sono state inondate di opere d’arte cinesi e di oggetti di lusso. I collezionisti hanno sempre fortemente apprezzato porcellane, avorio e giada intagliata, dipinti, tappeti e stoffe. Questi prodotti hanno ancora un posto rilevante come oggetti gelosamente conservati nelle collezioni di palazzi europei e musei in tutto il mondo. Ma non i gongshi. Solo recentemente questi sono entrati nel mercato occidentale dell’arte. Perché?

Ho discusso la questione con la studiosa e collezionista Kemin Hu, che vive a Boston. Hu ha pubblicato molti libri di referimento sui gongshi. Secondo lei la ragione per “la comparsa tarda sul mercato occidentale dell’arte è che i gongshi sono profondamente radicati nella filosofia dell’Asia e sono creati dalla natura, quindi non possono essere fabbricati da mani umane”. Questo punto è importante, perché in effetti tutti gli altri prodotti artistici cinesi destinati all’esportazione erano fatti a mano, e talvolta – già anticamente – con metodi di produzione semi-industriali.
La stessa questione viene trattata nell’opuscolo “Objects for Contemplation”, che presentava la mostra tenuta alla Henry Moore Foundation di Leeds, UK, nel 2010. Il suo curatore Craig Clunas sostiene che il termine scholar’s rocks sia recente e che “probabilmente fu coniato in inglese non prima degli anni 80 del secolo scorso”. Clunas suggerisce inoltre che la comparsa delle rocce da letterato sul mercato internazionale dell’arte sia successiva al rilassamento delle rigide limitazioni imposte all’esportazione di “cultural relics” durante il periodo Maoista. Ciò non basta a spiegare del tutto perché questi oggetti, chiaramente ambìti in Cina già nell’antichità, non fossero considerati commerciabili prima della rivoluzione – quando invece quasi tutto il resto lo era. Forse le pietre erano considerate un qualcosa di strettamente privato, come i ritratti degli antenati, e quindi passavano di generazione in generazione all’interno di una famiglia. Infatti, nelle testimonianze letterarie, alcune pietre antiche hanno valore proprio perché erano appartenute alla stessa famiglia per molte generazioni. Questi oggetti erano diventati veri e onorati “anziani di pietra”.

Forse anche nell’ambito della sensibilità artistica molto sofisticata della cultura cinese il caso dei gongshi è particolare: l’artificialità, che è una caratteristica dell’“arte”, deve cedere il passo al “naturale”, e alla fine si limita alla base scolpita. Peraltro ci sono prove che nei tempi più antichi le rocce collezionate non avessero una base, come se la sensibilità su questo punto avesse avuto bisogno di tempo per prendere piede.
L’aspetto più interesssante delle rocce da letterati e la loro posizione problematica nel campo dell’“arte” sta in questo: il rapporto fra cultura e natura (sempre problematico e irrisolto nell’arte occidentale) sembra trovare una sintesi nel gongshi, un punto di pacato dialogo. Essendo in sé un oggetto naturale, è grazie alla base che la roccia rientra nell’ambito dei prodotti culturali, tutti creati da mano umana. Idealmente – anche se non sempre – non toccato dallo scalpello, il gongshi è un prodotto naturale non adulterato, e quindi l’unica eccezione tra gli illustri prodotti culturali fatti dall’uomo enumerati da Lin Youlin nel testo sopracitato.

Un problema tipico del collezionismo nella società occidentale è quello dell’autenticità e della datazione. Perché un’opera d’arte sia considerata autentica deve essere descritta e possibilmente certificata in termini di produttore (se possibile), zona di origine, materiali, dimensioni e data. Il primo punto – il produttore – è fuori questione: anche se spesso “aiutata” allo scopo di raggiungere un aspetto interessante, in teoria la roccia non dovrebbe aver subìto alcun trattamento se non la pulizia. In nessun caso è stato registrato il nome di un “produttore” di gonshi.

Possiamo qui suggerire un’analogia con un altro prodotto artistico anonimo: gli anonimi monaci pittori delle icone russe e greche dovevano rinunciare alla loro personalità artistica e nascondere la loro mano sotto la perfezione di una rappresentazione canonica e rigidamente regolamentata. E tuttavia nessuno dubita che le icone siano opere d’arte.
La zona di origine e i materiali sono relativamente facili da accertare tramite l’analisi dei minerali. Persino negli antichi testi cinesi, la qualità del materiale e la località della cava, del lago o della montagna di origine sono discusse e costituiscono una parte importante della descrizione e valutazione di una roccia. Ma come si possono datare le rocce? L’ironia di questo problema è che la pietra stessa ha milioni di anni: un’età sbalorditivamente più antica di qualunque altro oggetto d’arte conosciuto. Solo eccezionalmente si possono riconoscere le rocce raffigurate nei dipinti, e si ha quindi una possibilità di datazione, nel senso che avranno la stessa età, o saranno più antiche, del dipinto stesso. Solo raramente lo stile di una roccia può suggerire quando è stata fatta; oppure, come nel caso degli esemplari più ricercati, la presenza di un’iscrizione o di un sigillo imperiale possono portare a una datazione approssimata. Tuttavia, il sigillo potrebbe essere stato falsificato o aggiunto ad una roccia più antica o più recente. Più facile è datare la base in legno, sulla base dello stile e con le tecniche di datazione al carbonio. Le basi sono in effetti più legate al periodo (alla moda, saremmo tentati di dire) delle rocce stesse. Alcune di esse sono intagliate in stili legati a un periodo o a un’area geografica di produzione. E come suggerisce lo studioso Kemin Hu: “le basi ci informano anche sulla condizione economica del collezionista”.

Tornando al tema dell’autenticità, questa “qualità” nel caso dei gongshi non è – come nell’arte “vera” – il fatto che l’oggetto provenga da un singolo individuo creatore umano, ma ha un significato diverso, più sottile. I gongshi sono unicamente, sublimemente autentici in un senso che nessuna opera d’arte potrà mai essere: pur rappresentando la natura, ne sono anche un vero e proprio pezzo, per quanto piccolo.
Nel contesto internazionale dell’arte, il ruolo delle rocce da letterato rimane curiosamente ambiguo: in quanto oggetti tridimensionali, dovrebbero appartenere all’ambito della scultura, ma se si pensa all’esigenza di non essere toccati dallo scalpello, il loro status di sculture diventa un paradosso. Potrebbero esser visti come “objets trouvés”, e come tali apprezzati inizialmente dagli artisti delle avanguardie all’inizio del XX secolo? Potrebbero anche essere assimilati allo spirito delle Wunderkammer – collezioni di oggetti naturali e artificiali rari e bizzarri – che costituivano uno status symbol alla moda nelle corti europee del Rinascimento. Se fossero stati commerciati durante il Rinascimento sicuramente sarebbero finiti in una Wunderkammer. Tuttavia questo paragone è anche insoddisfacente e riduttivo. Infatti, è la base in legno o in pietra – assente nei campioni più antichi – che pone queste rocce tra i manufatti culturali e artistici. La base, tanto importante anche per il problematico aspetto della datazione, è per le pietre ciò che è la cornice per un dipinto occidentale.

La base definisce l’inizio e la fine della pietra come oggetto di contemplazione, e la pone anche nella posizione e nella prospettiva migliore per essere guardata. Alcune rocce importanti possono infatti essere osservate da varie angolazioni “ottimali”, talvolta anche tre o addirittura quattro. E così ci sono rocce che vengono proposte con quattro diverse basi in legno. Tornando alla discussione se le rocce da letterato possano essere considerate o meno sculture, la base ha la funzione del piedestallo o del plinto, il supporto di gran parte delle sculture classiche occidentali. E la base stessa è indubbiamente una scultura. A volte è la base a suggerire la “disposizione d’animo” con cui contemplare una roccia: le onde del mare accarezzano la scogliera di un arco di roccia sul mare; o un cumulo di pali di legno intrecciati suggerisce un mucchio di rami e di rovi raccolti nei boschi, sostenendo allo stesso tempo una roccia che ricorda cime di montagne e grotte.
Il gongshi fu un fenomeno nato in una élite raffinata e colta all’interno di una società cinese piuttosto statica. Le rocce sono state amate e collezionate nel corso di molti secoli. Ma il fatto che abbiano trovato un nuovo apprezzamento nel mondo attuale è molto singolare. Le rocce da letterati sono una specie di puzzle visivo; una sfida per l’osservatore contemporaneo: esse richiedono una osservazione non superficiale. Sono porte che aprono a una diversa visione. Tutto il loro contenuto e il loro significato è al loro interno, ma la loro decifrazione sta ambiguamente nell’occhio dell’osservatore. Solo dopo ripetute, lunghe e in qualche modo oblique osservazioni, un osservatore occidentale “naif” può giungere a comprenderne lo spirito.
Oggi come in passato vengono apprezzate dove la contemplazione vale più dell’azione; dove la memoria vale più dell’effettiva presenza; e dove l’idea vale più dell’oggetto. E tuttavia le rocce da letterato posseggono anche un fisicità immediata. La loro magia è nella loro capacità di rivolgersi ai contemplatori, e di invitarli a trascendere l’incanto e le illusioni della fisicità.


Vittorio Urbani è nato a Ferrara nel 1954 e vive attualmente a Napoli. Ha una laurea in Medicina (110 cum laude), e una specializzazione in Pediatria. Nel 1993 fondò la Nuova Icona associazione culturale per le Arti, una organizzazione non-profit per l’arte dedicata alla nuova produzione artistica di cui è direttore a tutt’oggi. Ha curato o co-curato oltre 300 iniziative: mostre, seminari, spettacoli, come curatore/direttore di Nuova Icona e su invito di gallerie/istituzioni straniere.
Ha scritto, curato o co-curato circa 200 cataloghi e pubblicazioni artistiche.

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