La Via del Buddha secondo Dōgen

Scritto da Aldo Tollini -

In uno degli ultimi capitoli dello Shōbōgenzō intitolato “Shōji” (Vita e morte), Dōgen fa un’affermazione quanto meno sorprendente:

Vi è una via molto facile per diventare un Buddha: non creare nessun tipo di male, non avere un cuore che si attacca alla nascita-e-morte, provare una profonda compassione per tutti gli esseri viventi, onorare coloro che stanno sopra di noi e aver compassione per chi sta sotto di noi; con un cuore che non disprezza le cose, né con un cuore che (le) desidera, senza una mente che pensa (che si arrovella), senza preoccupazioni: questo si chiama il Buddha. E non vi è null'altro da cercare.

Quindi, per giungere alla buddhità bisogna non fare il male (e fare il bene nei confronti di tutti gli esseri senzienti), non avere attaccamenti, essere umili e rispettosi, essere sensibili verso i meno fortunati (e aiutarli), astenersi dal disprezzare e desiderare, essere equanimi e distaccati. Infine, mantenersi sereni e non farsi prendere dalle preoccupazioni, ma accettare quello che viene e quello che se ne va. Non vi è null’altro da cercare: tutto qui!

Certo, come afferma Dōgen stesso, è un metodo “facile”, o apparentemente facile. Comunque, da quanto afferma il brano, sembra che ci si possa esimere dall’immergersi in complesse dottrine e sfiancarsi in pratiche ascetiche. In definitiva, quello che Dōgen chiama bustudō, ossia la Via del Buddha, il percorso che porta all’illuminazione, non consisterebbe nell’impegnarsi con tutto se stessi con dedizione alla pratica, all’osservanza dei precetti e allo studio dei testi buddhisti, come previsto fino dall’antichità dal triplice percorso del sangaku.

Dopo una lunga esposizione della sua dottrina – una dottrina estremamente raffinata, sottile e complessa che gli è valsa la definizione di “maggior pensatore giapponese” - Dōgen nella sua maggiore opera, in un certo senso, si smentisce, o ribalta la sua posizione e, al posto della dottrina e della pratica, pone come requisito per accedere alla buddhità la “condotta morale”. Infatti, le parole di “Shōji” spostano l’impegno sulla Via da pratica e saggezza verso la retta condotta e il giusto atteggiamento del cuore/mente, il kokoro, che deve essere distaccato, equanime, benevolo, sereno. Si direbbe che Dōgen passa dall’insegnare come giungere alla buddhità alla descrizione della buddhità raggiunta. Insomma, Dōgen in “Shōji” ci insegna che non basta sapere e fare, bisogna diventare, cioè trasformare se stessi, o il proprio kokoro. L’obiettivo non è sapere, ma essere: “sapere” il buddhismo non basta per diventare un Buddha vivente.

Lo Zen di Dōgen, basato sull'identità tra pratica e illuminazione, si rivela nel comportamento, o nel modo di stare a questo mondo: sebbene siamo originariamente illuminati, dobbiamo sforzarci di realizzare la nostra vera natura, che è la natura-di-Buddha. Pratica e saggezza coincidono e sono una cosa sola non separata dalla normale vita quotidiana: non c'è un tempo di pratica e saggezza separato da una vita quotidiana di non-pratica e non-saggezza. Entrambe sono continue e ininterrotte: ogni momento e ogni luogo è il momento della pratica e della saggezza. Allo stesso modo, la manifestazione della propria natura-di-Buddha non è intermittente, ma può essere solo continua. Ciò implica essere sempre nella pratica e nella saggezza, quindi manifestare la propria buddhità in ogni momento. Pertanto, ogni azione deve essere il risultato della perfezione della propria buddhità.

Quello che descrive nel brano citato sopra è l’attuazione della propria natura-di-Buddha, è stare nel mondo come un Buddha realizzato. Se tutte le pratiche e lo studio non conducono a diventare una persona come viene descritta sopra, allora il praticante rimane un praticante e non varca il limite che fa di lui un illuminato: conosce l’illuminazione, ma non la realizza, tuttavia l’attuazione è la vera meta da perseguire.

A ben guardare, le virtù descritte nel brano citato: benevolenza, distacco, serenità ed equanimità sono tutte le perfezioni morali del Buddhismo. La benevolenza è la qualità fondamentale del bodhisattva che aiuta tutti gli esseri senzienti ad allontanare l’illusione e sviluppare un atteggiamento di compassione. Si manifesta nel concreto aiuto verso ogni forma di vita senziente ed è un requisito fondamentale nel percorso della Via. Altrettanto lo è il distacco, o l’abbandono degli attaccamenti che ci condizionano negativamente e ci spingono verso l’illusione e la perdizione. Con il distacco, si giunge alla serenità, una condizione di accettazione serena della realtà e della sua impermanenza, la quale senza una disposizione equanime viene percepita in modo negativo causando sofferenza. Benevolenza, distacco, serenità ed equanimità sono la manifestazione concreta della buddhità.

E, quindi, la Via buddhista, secondo Dōgen, poggia sull’attuazione di una condotta morale ispirata e sostenuta dalla saggezza e dalla compassione. E’ importante rimarcare questo concetto poiché esso ci fa vedere i precetti e la pratica in una luce diversa: essi non sono la sostanza della Via se non si tramutano in una attuazione concreta che si manifesta nel cambiamento interiore e nel comportamento esteriore nei confronti del prossimo.

C’è un brano nel capitolo 4-8 dello Zuimonki, il testo che raccoglie i discorsi informali di Dōgen, che esprime in modo magistrale questo concetto e riprende il brano citato in apertura:

Senza avere alcuna aspirazione, soltanto sperando di diventare una persona che porta gioia agli uomini e agli esseri celesti, mantenendo l’austero comportamento del monaco, avendo come obiettivo quello di agire per la salvazione e il vantaggio degli esseri senzienti, praticando ogni tipo di bene, gettando via il male fatto finora, non accontentandosi del bene fatto, continuando a fare questo per tutta la vita: questo è quello che gli antichi chiavavano “colpire e sfondare il secchio di lacca” (giungere alla buddhità). Il comportamento di Buddha e patriarchi è proprio questo.

In definitiva, Dōgen ci dice che essere nell’illuminazione significa manifestare un comportamento che attua le qualità morali del Buddha e che nel percorso della Via, i praticanti devono sempre tenere presente quale sia la vera essenza della buddhità e cercare di metterla in atto durante tutto il percorso.

O forse, Dōgen vuole anche dirci che l’illuminazione dopotutto non è quella cosa astratta, lontana e complicata che molti immaginano. E’, invece, qualcosa di semplice e di vicino a ciascuno di noi; qualcosa di quotidiano e che si esprime nella vita di tutti i giorni. E’ il nostro modo di stare al mondo comportandoci con umanità, comprensione, benevolenza e altruismo. Non è causale che tra i più importanti insegnamenti del Maestro ci sia shinjin datsuraku, “lasciar cadere il proprio corpo e mente”, cioè abbandonare l’egoismo per aprirci agli altri.