La banalità del bello
Estetica ed etica nella poetica haiku

Scritto da Gianfranco Fusco -

A partire dall’introduzione ufficiale del buddhismo in Giappone, nel VI secolo d. C.,1 e dalla sua rapida ascesa presso le classi dominanti dell’epoca, che lo portò a identificarsi ben presto con lo Stato stesso, la sensibilità buddhista è presente pressoché in tutte le manifestazioni culturali del Paese. In particolare lo spirito dello zen (禅), basato sui concetti centrali di vacuità (空) e nulla (mu 無), ha ispirato numerose discipline e ha fatto sentire la sua influenza anche sullo haikai (俳諧), da cui si separò poi lo hokku (発句, lett. “ku 句 strofa d’esordio” del renga 連歌, poesia a catena), che divenne il moderno haiku (俳句).2

Per un brevissimo riassunto della sua storia, rimando al mio Haiku: momenti d’illuminazione (Pagine Zen, 110, settembre-dicembre 2016). Qui basti ricordare che il renga fu praticato dalla metà del XIII fino al XVI secolo e raggiunse il suo apice nel XIV. Comprendeva due generi: lo ushin renga (有心連歌 renga “serio”) e il mushin renga (無心連歌 renga “leggero”) detto anche haikai no renga (俳諧の連歌); il primo verrà poi chiamato semplicemente renga e comprendeva cento strofe, mentre il secondo, il cui nome verrà abbreviato in haikai, ne comprendeva trentasei. Già Nijō Yoshimoto (二条 良基 1320-1388) aveva esortato a considerare lo hokku, prima strofa dello haikai, «un qualcosa di compiuto, quasi un tutto a sé»,3 ma sarà Bashō (芭蕉), haigō (俳号) definitivo di Matsuo Kinsaku (松尾 金作 1644-1694),4 a elevarlo al rango di vero poema. Così lo hokku assumerà una propria autonomia e comincerà a venir composto anche al di fuori delle sedute di poeti. Infine lo scrittore Masaoka Tsunenori Shiki (正岡常規子規 1867-1902) utilizzerà il neologismo haiku, come contrazione di haikai no ku (俳諧の句 lett. “verso di un poema a carattere scherzoso”).5

Come si è detto, nello haikai e lo hokku, prima, e poi nel moderno haiku si avverte la presenza ispiratrice, in particolare, dei concetti zen di vacuità e nulla, poiché in essi il non detto è più espressivo del detto. Si usa dire che non si possa definire lo zen, se non in negativo, solo spiegando che cosa non è, e che parlare di zen non è zen.6 Per questo, come per lo zen, forse anche per lo haiku sarebbe giusto applicare il famoso imperativo di Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».7 Ma, come sullo zen sono stati scritti fiumi di parole (allontanandosi sempre più dalla sua essenza), così aumenta il numero degli scritti sia sui classici hokku sia sugli haiku moderni, da quelli che vogliono insegnare a scriverli a quelli che pretendono di illustrarne il contenuto. Già la traduzione degli haiku dal giapponese a qualsiasi lingua occidentale li impoverisce irrimediabilmente, perché viene «lost in translation», oltre che il suono e il profondo significato (il che avviene in qualsiasi traduzione), anche l’immagine, in quanto nessuna scrittura alfabetica può riprodurre la bellezza di quella ideogrammatica. Ma soprattutto è con la loro autopsia interpretativa che si rischia di distruggerne definitivamente la bellezza, perché «la poesia non è stata scritta per essere analizzata. Deve ispirarci al di là della ragione, deve commuoverci al di là della comprensione» (Sparks).

Sarebbe dunque forte la tentazione di limitarsi alla loro tacita lettura, così aggiungendo silenzio al silenzio,8 ma è più forte la spinta a tentare di aiutare a comprenderne (lat. cŭm-prehĕndere, cioè afferrare per intero) la natura profonda. In altre parole, di solito si cerca di spiegare come viene scritto lo haiku (cioè la sua struttura, le sue regole compositive, ecc.), mentre io cercherò di far sentire perché questo avviene, cioè da quale impulso nasce. Per far questo, comincio col parlare di qualcosa di (almeno apparentemente) diverso: la magia.

Tutti siamo affascinati dalla magia. Tutti restiamo incantati davanti a chi sa fare prodigi, anche se la ragione ci dice che c’è il trucco, che la magia non esiste. E invece esiste, eccome! E chi è il mago? Uno che ci fa credere di guardare quello che non esiste (la realtà, che sta fuori) oppure che non ci fa vedere quello che è (la verità, che sta dentro). Pensiamo all’amore. In amore si parla spesso di magia: «è magico» oppure «non c’è magia». L’amore, si sa, è quella situazione, in cui appunto si incontra qualcuno (”magico”) che ci fa guardare quello che non esiste realmente e non vedere quello che è vero. O piuttosto – senza che ce ne rendiamo conto – ci fa credere di guardare una realtà diversa dal reale e non ci consente di vedere la verità vera. Per questo, è stato detto che «l’amore è uno sporco trucco giocato dalla natura per indurre le persone ad accoppiarsi» (Rolland).

È la differenza fra guardare e vedere. La maggior parte di noi guarda la realtà (Estetica), ma non vede la verità (Etica). Perché, appunto, la realtà esiste, sta intorno a noi, e quindi la si guarda con lo sguardo esterno, mentre la verità è dentro di noi e, per percepirla, per vederla, occorre la vista interiore, che la maggior parte di noi non ha. Ma lo haijin (俳人) sì.

Tutta la vita è piena di magie, anzi la vita, «la volontà di vivere» (Schopenhauer), è la Grande Magia. Ma noi, vivendoci dentro, la guardiamo, ma non la vediamo, non capiamo che cosa è. Ma lo haijin sì.

Lo haijin guarda la realtà che lo circonda e, grazie alla propria capacità, quasi sciamanica, di identificarsi con essa, in quello stesso momento, se ne appropria e ne vede la verità, che è dentro di sé,9 cioè scopre, in un momento d’illuminazione, che la realtà esterna, il landscape, gli è comune, corrisponde alla propria verità interiore, il mindscape, e per questo la sua funzione è simile a quella del mistico, perché deve «rivelare l’unità del mondo» (Daumal).

In psicologia, è stato affermato che «la nostra percezione del mondo è una fantasia che coincide con la realtà» (Frith), che ne aumenta il valore (Bachelard), e che non è una semplice «riproduzione psichica dell’oggetto esterno» (Jung), al quale può riferirsi anche solo indirettamente, bensì una ri-creazione fantastica di esso. Secondo Balzac, l’artista è un «homme donné de la pouissance créatrice» e Picasso affermava che «uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente», cioè esprime (lat. prĕmere ex-, spremere fuori) quello che ha assimilato ed è diventato parte di sé, la propria visione interiore,10 e la comunica agli altri, cioè a coloro ai quali è comune, secondo il concetto di “comunicazione” offerto da Wittgenstein.

Plinio il Vecchio scriveva che noi vediamo e distinguiamo con lo spirito, mentre gli occhi, come certi vasi, ricevono solo una parte di ciò che appare e che una profonda meditazione rende ciechi, perché la capacità di vedere si ritira all’interno.11 In questo senso, il poeta può essere interpretato come un veggente, un profeta, e l’arte poetica come arte profetica. Non è un caso che, nella Grecia classica, poeti e veggenti fossero ciechi. La mitologia indoeuropea in genere ci tramanda la rappresentazione del privo della vista come dotato di capacità superiori nella creazione poetica, con funzioni più sviluppate nella visione delle cose.

Il vate Omero descrive eroi e dèi che vede dentro di sé, come se li avesse guardati con gli occhi; l’indovino Tiresia vede nella propria mente il futuro degli uomini, che non potrà più guardare con gli occhi. Borges, il bibliotecario cieco, ha raccontato sogni, labirinti e letterature, nei quali si era immedesimato e che vedeva nella propria luce interiore, a dispetto delle esteriori tenebre del reale.

Allo stesso modo, lo haijin, attraverso l’esperienza della realtà, con la quale si identifica, riesce a evocare, con la magia del silenzio,12 «la lingua degli dèi» (Mancini), ancor più che con la parola, ciò che non appare più, che non esiste più nella realtà presente e ottiene questo, grazie anche alla grande forza spirituale, acquisita attraverso la meditazione zen, che gli consente di avere conoscenza profonda della natura, di vivere in simbiosi con essa, di capirla (lat. căpere, prendere) e quindi di «considerare l’uomo e la natura come una cosa sola, come un organismo nel quale ogni parte lavora con e per le altre», di sentirsi parte del mu come la singola goccia è parte del mare.13 Perché, come si legge nella seconda parte dello Hyakuron (百論),14 «ogni dottrina buddhista insegna che, nella nostra vera essenza, tutto – essere come non-essere – è nulla».15 Forse ogni opera d’arte, e lo haiku in modo particolare, non è altro che un medium col quale dare senso e forma a quel nulla, renderlo visibile, squarciando il velo di māyā (sanscr. illusione).16 E forse l’idea di Brecht, secondo cui «l’arte non è uno specchio posto davanti alla realtà, ma un martello col quale darle forma» contrasta solo apparentemente con questa visione, se il “martello” che la ri-forma è la vista dello haijin.

Ma, ci rivela il filosofo buddhista Nāgārjuna (150 c.-250),17 nel suo Mūla-madhyamaka-kārikā, che non è solo l’occhio dello haijin a guardare il landscape, è anche il landscape che entra in relazione con lo sguardo dello haijin e l’esistenza di entrambi è dovuta solo a questa reciproca interdipendenza, perché tutti i fenomeni (sanscr. dharma) sono vuoti d’identità, non hanno esistenza in sé. Tutto è vacuità (sanscr. śūnyatā), compresa la vacuità stessa. Il grande tema del buddhismo è l’illusorietà del mondo (sanscr. saṃsāra), riconoscendo la quale si raggiunge il nirvāṇa, la beatitudine, ma, avverte Nāgārjuna, «Il saṃsāra è in nulla differente dal nirvāṇa […] Tra questi due non c’è alcuna differenza» (XXV, 19-20). E nemmeno la naturale accettazione dell’impermanenza (sanscr. anitya) di ogni essere è la sostanza ultima della dottrina del Buddha, per il semplice motivo che una sostanza ultima non c’è. Questo argomentare di quasi duemila anni fa coincide, in modo impressionante, coi principi dell’odierna meccanica quantistica, secondo cui nessuna cosa esiste sempre, ma solo quando interagisce con un’altra. Ma rinunciamo a cercare un fondamento a questa realtà, perché non c’è, e consoliamoci pensando che, se nulla esiste, non ha senso l’attaccamento (sanscr. upādāna) all’apparenza del reale, che è all’origine della sofferenza.

Tornando a noi, diceva Rainer Maria Rilke che «per scrivere un verso, bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna capire il volo degli uccelli e comprendere il gesto con cui i piccoli fiori si aprono al mattino»,18 questo per dire che i versi nascono dall’esperienza della realtà, ma fecondata dall’essenza della verità interiore: «perché ti riesca l’esistenza di un albero / gettagli intorno parte di quell’intimo spazio / che abita in te».19 Pontalis si spingeva oltre: «ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere sé stessi».20 Questo trasformare il paesaggio guardato (landscape) in paesaggio vissuto (mindscape), grazie alla propria identificazione con la natura (shizen 自然) appartiene alla tradizione giapponese fin dallo shintō (榛東村), prima ancora dell’avvento del buddhismo, ma non fa parte della cultura occidentale.

La poetica haiku è permeata anche di un altro concetto, altrettanto estraneo allo spirito occidentale, se non – in una forma solo apparentemente simile – nella letteratura romantica: lo shōji (生死 lett. “vita morte”). Al significato originario di “vita intera, dalla nascita alla morte” si è aggiunto quello buddhista del continuum circolare cosmico, all’interno del quale ogni inizio e fine sono mera apparenza, due manifestazioni dell’ininterrotto fluire dell’energia karmica, in cui ciò che conta è solo la trasformazione, il perenne divenire.21 Il termine indica così la sfera del mondo terreno con la sua latente malinconica consapevolezza dell’impermanenza, il cui superamento (涅槃 nehan, sanscr. nirvāṇa) ne è il fine ultimo.

Sul tema del paesaggio naturale, è interessante sapere che, il 19 luglio 2000, è stata firmata una Convenzione Europea del Paesaggio. – recepita dall’Italia con una legge del 2006 – nella quale lo si definisce «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni […] e fondamento della loro identità». Può essere un primo passo, anche se forse non c’è molto da illudersi, considerato, per esempio, il dualismo teorizzato da Lacan, secondo cui la realtà sarebbe uno stato di quiete, una specie di sonno, distinta dal reale che sarebbe invece una forza dirompente, atta a sconvolgerla, e la poesia un soccorso, un mezzo per domarlo, un «arrest of disorder» (Frost), un temporaneo riordino del caos. Quasi una difesa interna contro la violenza esterna della natura (“matrigna”?). È una visione inquietante, dal punto di vista psicoanalitico.

Comunque sia, lo haiku, più di altre forme poetiche, nasce spontaneamente, istantaneamente dalla visione della natura. Art happens (Whistler), accade in un attimo, senza causa apparente.22 Come se fosse involontario, dettato dall’inconscio, dalla “non-mente” (無心 mushin).23 Lo haiku «belongs to a tradition of looking at things, a way of living».24 Si potrebbe dire – parafrasando Gilles Clément – che «per chi sa vedere, tutto è haiku».25 I suoi diciassette on (音)26 non sono frutto di elucubrazione mentale, ma di esperienze di vita, scene banali, che possono contemplare anche il brutto (Hegel), perché “bello” e “brutto” non sono altro che contingenti e arbitrarie categorizzazioni di forme della realtà, del tutto estranee ai valori sostanziali della verità, nella cui dimensione assoluta – quella della natura – è perfetto anche ciò che è «grossolano, disfatto, sporco» (Carlyle). Le stesse scene ognuno di noi le guarda ogni giorno e, per lo più, non riesce a vederle, perché l’immagine che appare nella realtà, gli impedisce di vedere la verità della loro sostanza. Ma non allo haijin, per il quale – come recita un verso dello Hridaya-Sūtra – «Forma è vacuità, vacuità è forma» e che perciò compie il prodigio di consentire anche a noi di vederne la bellezza, esternandola con la magia dello haiku, attraverso il quale ci comunica la sua vista interiore,27 rendendoci partecipi attivi della sua creazione, perché ciascuno haiku è come un cerchio (円相 ensō), di cui una metà è frutto del lavoro dello haijin, ma chiuderlo è compito del lettore (Seisensui). L’ensō, questa “O” orientale, che esprime la totalità dell’essere, «l’aspetto più essenziale della nostra esistenza – la sua globalità estrema» (Loori),28 è in realtà un simbolo trasversale, presente da Oriente a Occidente, dall’età della pietra a oggi. Nello zen si dice che quando gira la Ruota del Dharma, gira nei due sensi; nel buddhismo tibetano si creano mandala, che rappresentano la circolarità dell’universo; nel cristianesimo le immagini sacre sono sormontate da aureole circolari; per inviare al papa Benedetto XI un esempio della propria arte, Giotto tracciò un cerchio perfetto; d’altra parte, noi viviamo su una sfera, che descrive un cerchio intorno al sole; Jung, nelle sue considerazioni sull’inconscio collettivo, lo definiva l’«archetipo della totalità». Nella pittura zen è simbolo del , della «vacuità, senza forma e infinita» (Milton), il cuore del mu.

Visto in quest’ottica, lo haiku, col proprio diritto di essere «futile, corto, ordinario» (Barthes) è un po’ come l’involucro dei pacchetti giapponesi, capace di impreziosire, con la sua stupefacente perfezione, qualunque mediocre contenuto.29 Si perpetua così il miracolo dello haiku: cogliere, in diciassette “suoni”, «un battito della vita dell’universo» (Dal Pra), rivelare il macrocosmo, mostrando un’infinitesima, banale porzione del microcosmo. Una sineddoche, un nulla che appunto è tutto, «Una porta si apre, una porta si chiude» (Plath), un attimo brevissimo, che è l’eternità senza tempo, come una freccia, che saetta nell’aria, come un lampo nella notte fonda, che, per un istante, illumina l’intero paesaggio. La verità del , che ne mostra la totale pienezza, qualcosa che non può essere com-preso con la ragione (理性 risei), ma solo partecipato col sentimento, cioè col proprio cuore (以心伝心ishindenshin).

A questa specie di estasi dello haijin al cospetto di ogni componente della realtà si adatta il termine buddhista kenshō (見性vedere l’essenza), cioè quasi un inizio di satori (悟 risveglio)30 o piuttosto di keiji (啓示 rivelazione)31 ed è ben espressa in uno hokku di Bashō, nel quale afferma che, non stancandosi di ammirare il miracolo della fioritura, l’emozione è così forte da impedirgli persino di estrarre il taccuino, per trasfonderla in un componimento poetico («花にあかぬ嘆きやこちのうたぶくろ hana ni akanu nageki ya kochi no utabukuro»),32 come pure quando, di passaggio a Matsushima (Isole dei pini), dove la bellezza del paesaggio supera ogni descrizione, si sarebbe limitato a scrivere (in uno hokku spesso a lui attribuito) «松島やああ松島や松島や matsushima ya aa matsushima ya matsushima ya»,33 mentre il suo compagno di viaggio, Kawai Sora (河合曾良 1649-1710) ne compose uno ben più espressivo: «松島や鶴に身を借れほとゝぎす matsushima ya tsuru no mi o kare hototogisu».34 In genere, lo sguardo del poeta è puro, come quello di un bambino che scopre il mondo o di un uomo che si affaccia alla visione del primo giorno dell’universo e al quale tutto appare meraviglioso.

Questa magia si attua con la massima economia di parole,35 perché «a volte le parole non bastano» (Baricco) e allora ci vuole il silenzio, «un pezzo di reale silenzio, di silenzio profano» (Rilke), per impedire che, come spesso accade, «i pensieri muoiano nel momento in cui prendono forma le parole» (Schopenhauer), perché «nella natura c’è anche una mutezza insondabile [e] il fatto che la parola ricada subito nel silenzio giova alla parola» (Zanzotto),36 un silenzio fondamentale, per «cogliere nell’essenza il fascino raccolto di un evento minimo, semplice, naturale» (Iarocci), senza descrizioni («lo haiku non descrive mai, è antidescrittivo» notava Barthes), perché la descrizione è già un’elaborazione mentale e invece «lo haiku deve essere estremamente semplice, libero dagli artifici propri della poesia» (Kerouac),37 in quanto appunto «non è una poesia di idee ma di cose» (Del Pra),38 perché «non esiste […] arte senza fatti» (Nabokov). Lo haiku non ammette simboli o metafore, è essenziale e «puro nella forma» (Rilke). E, come detto, deve essere immediato. Lo haijin classico portava sempre con sé l’occorrente per scrivere, fermando sulla carta l’attimo fuggente, come uno zenga (禅画 pittura zen), un «disegno sempre uguale e sempre diverso» (Bonnefoy), uno schizzo, «un semplice quadro in tre colpi di pennello» (Chamberlain), non suscettibile di trasformazione: il vero haiku è istantaneo, perché non si può modificare il tracciato del fulmine nel cielo.39

C’è già una differenza fondamentale fra una descrizione (cioè la rappresentazione di un modello della realtà con parole scritte) e una fotografia (cioè la riproduzione di un modello della realtà con la luce): entrambe mentono, in quanto appunto appartengono alla dimensione esterna della realtà e non a quella interiore della verità, ma mentre la prima lascia la libertà di ricreare con la fantasia l’oggetto descritto, in infiniti modi diversi, la seconda impone la propria immagine, inibendone ogni modifica. Pertanto, alla prima si può anche non credere, negare l’esistenza del suo contenuto, alla seconda no, perché la sua apparente oggettività è inattaccabile. Eppure sappiamo che la seconda può essere ben più ingannevole della prima. Ma questo è un altro discorso.

Lo haiku, più di qualsiasi altra forma poetica, salvaguarda al massimo la libertà immaginifica del lettore, in quanto appunto non contiene descrizioni né usa metafore o altre figure retoriche. Lo haijin ri-produce la realtà, il landscape, ciò che esiste intorno a sé, convertendola in mindscape, la verità che è dentro di sé e la comunica al lettore (cioè gliela fa scoprire a lui comune) così come è dentro di lui, e così stimola la sua capacità ri-creativa. «If bees are few / The revery alone will do», scriveva Emily Dickinson,40 che sapeva ri-creare ogni giorno un diverso paesaggio, fuori dalla propria finestra solitaria.41

Abbiamo visto che lo haijin ha profonda consapevolezza del proprio essere parte della natura, di questa entità che muta in continuazione, «costruisce sempre e sempre distrugge» (Goethe), da sé, spontaneamente, grazie al ki (氣), il soffio vitale, «l’energia che dà vita e che forma ogni tipo di realtà, visibile o invisibile» (Ghilardi),42 senza distinzione alcuna fra umani, animali, vegetali e minerali. Per questo, lo haijin tradizionale componeva, secondo l’insegnamento di Bashō, stando a contatto diretto con la natura,43 come i pittori impressionisti francesi dipingevano “en plein air” (pur completando spesso l’opera in studio). Ma ormai non è più così, perché – anche grazie alla psicanalisi – ognuno ha preso coscienza della capacità di creare un proprio open space, anche in presenza di altri e che «proprio in quei rari momenti in cui non ci sentiamo obbligati a rispondere a sollecitazioni interne ed esterne, possiamo sviluppare un tipo particolare di sintonia, creativa e autentica, con noi stessi e con l’ambiente» (Lingiardi).44 Oggi, dunque, anche quando è in una stazione della metropolitana45 o chiuso nella propria stanza, lo haijin è immerso nello spazio e nel paesaggio, «the Garden in the Brain»,46 e può sentire, come la solitaria Emily Dickinson, che «Nature is Heaven – / […] Nature is Harmony – […] Simplicity».47

Il suggerimento di Bashō, «seguire la natura, tornare alla natura», era stato rispettato per secoli dagli haijin come una specie di imperativo assoluto, in ossequio anche al concetto buddhista e ancor più shintoista della natura come un tutto vivente, dentro il quale ogni animale, vegetale e persino pietra ha un proprio spirito (神kami). Fu il Maestro, nella maturità artistica e a conclusione della propria ricerca letteraria e linguistica sulla cultura classica cinese e la dottrina zen, a caratterizzare lo hokku con l’estetica della semplicità, esaltando la bellezza della quotidianità, attraverso l’uso di un linguaggio essenziale e il riferimento a fatti banali e caduchi, capaci però di esprimere il sublime ed eterno (Muramatsu). Yosa Taniguchi Buson (与謝谷口蕪村 1716-1784), pittore e haijin, amò il Maestro, fino a ripercorrerne, non solo metaforicamente, gli itinerari e diede nuovo respiro al genere poetico, quasi dimenticato, dopo la morte di Bashō («春の海ひねもすのたりのたりかな haru no umi hinemosu notari notari kana»).48 Kobayashi Issa (小林 一茶 1763-1827) si staccò, in parte, dai canoni del Maestro, privilegiando i fatti della vita come soggetti dei propri hokku, fino a inserirvi sé stesso («痩蛙負けるな一茶是にあり yase gaeru makeruna issa kore ni ari»). Nello stesso periodo, il monaco zen Ryōkan Taigu (良寛大愚),49 nato Yamamoto Eizo (山本栄蔵 1758–1831), nei suoi novantanove hokku di certa attribuzione (Kawaguchi) espresse il proprio profondo spirito zen di eremita, completamente identificato con la natura, fino alla sua ultima composizione, il jisei (辞世 poesia di morte) dettato alla sua discepola monaca Teishin: «裏 を 見せ 表 を 見せ散る 紅葉 うら見せ おもて見せ散る もみじ ura wo mise omote wo misete chiru momiji».

Gli haijin della tradizione avevano dunque continuato a coltivare i concetti estetici classici, già presenti nel Kojiki (古事記 Vecchie cose scritte, 712) e nel Manyōshū (万葉集Raccolta di diecimila foglie, circa VIII sec.), secondo cui è bello anche ciò che è imperfetto50 e pervaso dalla delicata malinconia dello wabi (侘) e del sabi (寂). Il tutto, mantenendo lo schema metrico dei diciassette on. Il vero riformatore del genere fu, a partire dal 1896, il giovane Shiki, fautore del realismo e della ricerca di un nuovo stile, anche con utilizzazione del verso libero («奈良の町の昔くさしや朧月 nara no machi no mukashikusashi ya oborozuki»). Dei suoi allievi, Takahama Kyōshi (高浜虚子1874-1959) si mantenne fedele alle regole tradizionali («竹林に黄なる春日を仰ぎけり chikurin ni ki naru haruhi wo aogikeri»), mentre Kawahigashi Hekigodō (河東碧梧桐, nato Heigorō 秉五郎 1873-1937) diede vita alla corrente più modernista, liberandosi dallo schema di 5-7-5 on 赤い椿白い椿と落ちにけり akai tsubaki shiroi tsubaki to ochinikeri»), e così aprendo la strada a Ogiwara Tōkichi Seisensui (荻原藤吉井泉水 1884-1976) («空はうつろなるまで晴れて囚人の唄 sora wa utsuro naru made harete shūjin no uta») e Ozaki Hideo Hōsai (尾崎秀雄放哉1885-1926) («雨の日は御灯ともし一人居る ame no hi wa gohitomoshi hitori iru»), i quali, con la loro ricerca di nuove tecniche di scrittura e di struttura linguistica e rinunciando anche al kigo (季語) e al kireji (切れ字), hanno reso più accessibile lo haiku ai poeti occidentali, in primo luogo a quelli di lingua inglese.

Inoltre, poiché tutto (anche le creazioni dell’uomo) fa parte della natura, sempre più spesso all’origine di haiku contemporanei ci sono un manufatto, un dipinto o persino un altro haiku. Così lo stagno e la rana di Bashō possono diventare tanti stagni e rane diversi, facenti parte del mindscape ri-creato dalla fantasia dei differenti haijin lettori,51 capaci di «collocare una cosa immaginaria dentro uno spazio appropriato, cioè tutto interiore» (Rilke), a seconda della personale intelligenza estetica di ognuno. Ciò peraltro era già avvenuto anche nel Settecento: «新池やかはづとびこむ音もなし ara ike ya kawazu tobikomu oto mo nashi» (Ryōkan Taigu).

Un aspetto interessante e poco noto della storia dello haiku è rappresentato dalle voci femminili, che, in un mondo tutto al maschile, si sono espresse in questa forma poetica attraverso i secoli, da Den Sutejo (田捨女 1633-1698: «雪の朝二の字二の字の下駄の跡 yuki no asa ni no ji ni no ji no geta no ato») a Mayuzumi Madoka (黛まどか1965: «会ひたくて 逢ひたくて踏む 薄氷 aitakute aitakute fumu usugouri») e che oggi sono divenute numerosissime e famose52 e, tra queste, Kuroda Momoko (黒田杏子 1938), che pubblicò in Italia una sua raccolta di haiku («Nel plenilunio / spruzzi d’acqua scintillano / i suoi orecchini»).53

Attualmente in Giappone più di dieci milioni di persone si dilettano a scrivere haiku e quasi tutti i giornali hanno una rubrica a loro riservata. Anche fuori dal Giappone sono sorte associazioni di scrittori di haiku, dalla statunitense The Haiku Society of America alla nostrana Associazione Italiana Haiku, e un po’ dovunque (persino in Marocco),54 ma la principale differenza fra i giapponesi e gli altri sembra consistere nel fatto che i primi cercano, all’interno del gruppo, un rapporto insegnante-studente, mentre gli altri tendono a creare gruppi piuttosto per avere contatti con altre persone o per vedere pubblicate le proprie creazioni, non per trovare un “maestro” dal quale farsi guidare (Sato).

Contrariamente a quanto pensava Sōseki, in Occidente moltissimi poeti si sono cimentati nella composizione di haiku,55 soprattutto in inglese,56 con qualche deviazione umoristica:57 Richard Wright (1908-1960: «The sound of the rain, / Blotted out now and then / By a sticky coug»);58 Jorge Luis Borges (1899-1986: «Hoy no me alegran / los almendros del huerto. / Son tu recuerdo»);59 Andrea Zanzotto («Waves of mist and certitude / in a remote silver paddle: / nearing, nearing memory» «Onde di nebbia e certezza / in una remota pagaia d’argento: / arriva, arriva la memoria»);60 l’interessante esperimento multilingue di Maria Laura Valente (Valente, 2019).61 E occasionalmente tanti altri: Paul Claudel (1868-1955: «Seule la rose / est assez fragile / pour exprimer l’Eternité»); Rainer Maria Rilke (1875-1926: «Entre ses vingt fards / elle cherche un pot plein: / devenue pierre»); Antonio Machado (1875-1939: «¡Sólo tu figura, / como una centella blanca, / en mi noche oscura!»); Julien Vocance (1878-1954: «Ils ont des yeux luisants / De santé, de jeunesse, d'espoir / Ils ont des yeux en verre»); Umberto Saba, nato Umberto Poli (1883 – 1957: «Gli occhi della Plebe.
Si fermavano tutti... ad ammirare / "Che sia pazzo od ubbriaco?" / "Che ti importa
di ciò?" /- Divertiti senza pensare»); William Carlos Williams (1883-1963: «So different, this man / and this woman: a stream / following in a field»); Giuseppe Ungaretti (1888-1970: «Il cielo pone in capo / ai minareti / ghirlande di lumini»); Conrad Aiken (1889-1973: «Separate we come, and / separate we go, And this be it / known, is all that we know»); Paul Eluard (1895-1952: «Le coeur à ce qu’elle chante / elle fait fondre la neige / la nourrice des oiseaux»); Giorgos Seferis (1900-1971: «Io guardo il fiume / crespe leggere passano sotto il sole malato / nient'altro, il fiume aspetta; / abbi pietà di quanti aspettano»); Salvatore Quasimodo (1901-1968: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera»); Mario Benedetti (1920-2009: «La mariposa / recordará por siempre / que fue gusano»); Edoardo Sanguineti (1930-2010): «Sessanta lune / i petali di un haiku / nella tua bocca»; Alda Merini (1931-2009: «Io sono con te in ogni / maledetto istante che ci / vuole dividere e non ci riesce»); Janice Bostok (1942-2011: «pregnant again ... / the fluttering of moths / against the window»); Judith Meskill (1950: «Plasmic sun kisses / Celestial equator: / Vernal equinox»); Pierluca D’amato (1990: «La pietra / è cieca e sorda. / Ma dice il vero») e l’elenco potrebbe continuare.

Forse davvero – a dispetto dei puristi – chiunque può comporre haiku, se è vero che «ciascuno di noi è come un artista e possiede una sua personale sensibilità creativa» (Bollas).62 Di certo sono sempre di più coloro che, essendo venuti a contatto con questa “poesia del quotidiano”, credono di poterlo fare e s’industriano a farlo.

Per concludere, mi piace citare un passo del famoso testo taoista Chuang Tzu (庄子):63 «Una volta c’era un famoso suonatore di cetra, chiamato Chao Wen, che sapeva suonare la cetra come nessun altro. Ma un giorno all’improvviso smise completamente di suonare la cetra. Aveva finalmente capito che nel suonare una nota si trascuravano inevitabilmente tutte le altre. Fu solo allora, quando smise di suonare, che riuscì a sentire la completa armonia di tutte le cose. [...] L’unica musica completa è quella dei suoni naturali».

La musica in Occidente è un oggetto, mentre in Oriente è una durata, si costruisce via via, arricchendosi dei suoni della Natura. Per questo, ogni composizione musicale occidentale è iniqua, in quanto utilizza alcune note e ne tralascia altre. Forse per rimediare a questa iniquità, Gustav Mahler (1860-1911) aveva cominciato a introdurre nelle proprie sinfonie suoni imitati dalla natura, ma furono i francesi Pierre Schaeffer (1910-1995) e Pierre Henry (1927-2017) a comporre la “musique concrète”,64 utilizzando ogni genere di suoni, musicali o non musicali, registrati su magnetofono e poi manipolati, anche sezionando e ricomponendo i nastri, tecnica questa usata anche da Cage. Seguì la Sound Art, che utilizzava “eventi sonori” e rumori, intervenendo su fonti sonore preesistenti. La musica elettroacustica in Giappone fu rappresentata, negli anni Cinquanta, da Mayuzumi Toshirō (黛敏郎 1929–1997) e Shibata Minao (柴田 南雄1916-1996) ed ebbe la sua evoluzione nella Computer Music (Ikeda Ryōji 池田 亮司1966), per finire negli anni Sessanta del XX secolo. John Cage concluse il proprio percorso zen verso il silenzio (seijaku 静寂) della natura col brano 4’ 33” (1952), che intende esprimere appunto la sua completezza musicale, attraverso l’ascolto dei suoni naturali, senza alcun intervento umano.

E allora forse anche il percorso dello haiku, nel quale il sentimento è comunicato più dal non-detto che dalle parole e in cui – per riprendere l’insegnamento iniziale di Bashō – si deve «seguire la natura, tornare alla natura», forse il sogno di ogni haijin, quello cioè di sentir nascere in sé lo haiku perfetto, lo haiku assoluto, si potrà raggiungere solo chiudendo gli occhi e ascoltando la sinfonia silenziosa degli infiniti suoni della natura.

Franco Fusco - (all’anagrafe Gianfranco), nato a Bologna il 13.03.1943. Avvocato.

Mi occupo, da sempre, di cultura giapponese e ho fatto parte – anche come membro del Direttivo – dell’AISTUGIA-Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi, fondata nel 1973 da Fosco Maraini (1912-2004), di cui sono stato amico. In questo ambito (e alcuni su riviste: Pagine zen, ecc.), ho pubblicato i seguenti saggi, su cui ho tenuto anche conferenze presso diverse università italiane:

- Creatività e perversione. Riflessioni su quattro romanzi giapponesi (1994);

- Shunga e zenga: due approcci diversi all'arte di vivere (1995);

- Kurosawa Akira: apparenza e realtà (1996);

- Percorsi dell'immagine giapponese dal «mondo fluttuante» al mondo elettronico (1997);

- Il disegno giapponese tra manga e comics (1998);

- Murakami Haruki: jisatsu e kaidan alle soglie del 2000 (1999);

- Kitano «Beat» Takeshi: yakuzazen beats and bites Japan (2001);

- Zen e bugia: fra arte e religione (2002);

- Manga e shunga: la spontaneità dell’erotismo (2005);

- Haiku: la banalità del bello (2018).

Nel 2013, ho pubblicato un libro di racconti (“Muore l’artista / ma non del suo amor / la poesia”, Ed. Pendragon): in quelli che sono stati definiti “tempi supplementari” (C. Bugatti), grandi artisti del passato (Beckett, Joyce, Rimbaud, Freud, Wilde, Céline, Borges, Van Gogh, Mozart, Yoshitoshi, Hokusai, Čechov, Kafka) vivono possibili storie d’amore.

Ho scritto anche altre raccolte di racconti, inedite (“Donne come me”, “Il gioco dello scarabeo dorato”, “Questo non è teatro”) oltre a racconti sparsi e cinque romanzi, anch’essi inediti (“Come una fontana”, “Il mistero degli specchi neri”, “Ortensia bianca, ortensia blu”, “Chiunque Dovunque Quandunque”, “La finestra di Sam”: vedi “SINOSSI” allegata).

Ho composto oltre 2000 haiku, in parte pubblicati in antologie e su FB.

Il MUSINF – Museo Comunale d’Arte Moderna dell’Informazione e della Fotografia di Senigallia, col patrocinio dell’Assessore alla Cultura Stefano Schiavoni, ha realizzato, nella primavera 2016, una mostra fotografica sul Tibet (“Perduto Tibet. Tibet ritrovato”), che affiancava foto di Fosco Maraini, in bianco e nero (scattate durante le spedizioni Tucci del 1937 e 1948), a foto mie, a colori, del 1998. Un’altra mostra fotografica dallo stesso titolo e contenuto si è tenuta a Bologna, nel palazzo d’Accursio, nella primavera 2023.


Bibliografia

Riferimenti bibliografici

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Note

1. Nel 538, il sovrano coreano Kudara regalò all’Imperatore Kimmei (欽明天皇 Kinmei-tennō) una statua del Buddha, alcuni volumi di sūtra e gli strumenti dei riti buddhisti. Il buddhismo era stato introdotto in Corea dalla Cina, circa due secoli prima. ↩︎

2. Il significato originario del kanji hai (俳) è “attore” e quello di ku (句) è “frase”. Per un’analisi di “Association and Dissociation” fra haiku e zen, si rimanda a Sato, 2018, pp. 41-60. ↩︎

3. Muccioli M., La letteratura giapponese, Sansoni Accademia, Milano, 1969, p. 268. ↩︎

4. Prima anche Matsuo Chūemon Munefusa (松尾 忠右衛門 宗房). ↩︎

5. Shiki non coniò il termine haiku – che era solo poco usato, per significare “un verso” – ma lo usò per indicare un nuovo genere, simile allo hokku. ↩︎

6. Coerente con questo principio, John Cage (1912-1992), alla fine degli anni '40/inizio degli anni '50, esordì così la sua Lecture on Nothing: «I am here and there is nothing to say». Alan Watts, in una sua conferenza sullo zen (pubblicata su Dharma n. 19, 2005) iniziò raccontando questa storia zen: «Una volta uno studente di zen recitò al maestro un’antica poesia buddista: “Il vociare dei torrenti è articolato da un’unica grande lingua, i leoni delle montagne sono il puro corpo del Buddha”. “È giusto vero?” aggiunse. Il maestro rispose: “Sì, lo è, ma è un vero peccato dirlo!”» (trad. Flavio Pelliconi). ↩︎

7. Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, trad. it., Einaudi, Torino, 1995, p. 109. ↩︎

8. Fenollosa E.: «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», cit. in Pound E., Opere scelte, trad. it., Arnoldo Mondadori, Milano, 1970, p. 380. «il silenzio, in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme» (Hillesum, 1985, p. 117). ↩︎

9. Rilke affermava che la pittura cristiana si avvicinò gradualmente al paesaggio, dapprima sentendolo «come una cosa effimera», poi dipingendolo senza guardare «ad esso, ma a sé stessi […] pretesto per un sentimento umano». ↩︎

10. Stein G.: «Picasso […] non vede la realtà come la vedono gli altri, così che lui solo tra i pittori non aveva il problema di esprimere le verità che gli altri possono vedere ma le verità che lui solo può vedere», Picasso, trad. it., Skira, Milano, 2017, p. 57. Fagioli M.: «l’artista è un creatore in quanto distruttore ed è stata la regola fondante di Picasso», Balzac, Picasso e Le chef-d’œvre inconnu, in Picasso e Vollard, il genio e il mercante, catalogo della mostra (Venezia, 6.4-8.7.2012), Giunti, Firenze, 2012, p. 41. ↩︎

11. Plinio il vecchio, Naturalis Historia, Einaudi, Torino, 1983, XI, 54. ↩︎

12. Leopardi G., Zibaldone di pensieri, Einaudi, Torino, 1977, p. 171: «Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei momenti dolci), dell’ira, della meraviglia, del timore». ↩︎

13. Terada T., Lo spirito dello haiku, trad. it., Lindau, Torino, 2017, p. 14. Cfr. il detto maori: «Ko au te awa, ko te awa ko au», Io sono il fiume, il fiume è me. ↩︎

14. Opera fondamentale di Aryadeva, quindicesimo patriarca della tradizione indiana (III sec.). ↩︎

15. Citato in Hisamatsu H. S., La pienezza del nulla, trad. it., Il melangolo, Genova, 1993, p. 16. ↩︎

16. Cfr. Erdman D. V., The Complete Poetry and Prose of William Blake, University of California Press, London, 2008, p. 39: «If the doors of perception were cleansed everything would appear to man as it is, infinite». ↩︎

17. In giapponese Ryūju (龍樹). ↩︎

18. Rilke R. M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, trad. it., Garzanti, 1974, p. 13. ↩︎

19. Rilke R. M., Poesie sparse, trad. it., Einaudi, Torino, 2014, 98, p. 529. ↩︎

20. Pontalis J.-B., L’amore degli inizi, trad. it., Borla, Roma, 1990, p. 57. ↩︎

21. Del resto, anche la scienza insegna che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. ↩︎

22. Cfr. Dickinson E., Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori, Milano, 1997, p. 576: «Beauty – be not caused – It is –». ↩︎

23. Suzuki D., Zen and Japanese Culture, Routledge And Kegan Paul, London, 1959, p. 226. ↩︎

24. Blyth R. H., Haiku, vol. 1: Eastern Culture, The Hokuseido Press, Tokyo, 1990, p. 6. ↩︎

25. Clément G., Breve trattato sull’arte involontaria, trad. it., Quodlibet, Macerata, 2019, p. 13: «Per chi sa osservare, tutto è arte». ↩︎

26. Il termine on significa “suono” ed è usato per indicare le unità fonetiche che si contano nello haiku, ma viene di solito tradotto con l’improprio “sillaba”. ↩︎

27. Hisamatsu H. S., Op. cit., p. 17: «è piuttosto il cuore stesso che vede. Tuttavia ciò non si esaurisce neppure in un mero attivo vedere, ma piuttosto il soggetto del nulla è attivo e passivo insieme e identico con l’oggetto». ↩︎

28. Seo A. Y., Ensō – Les cercles d’éveil dans l’art zen, Ed. Sully, Vannes, 2016, p. 13. ↩︎

29. Barthes R., L’empire des signes, Flammarion, Paris, 1984, p. 60: «Par sa perfection même, cette enveloppe […] recule la découverte de l’objet qu’elle renferme – et qui est souvent insignifiant». ↩︎

30. Blyth R. H.: «Haiku is a form of Zen», cit. in Sato H., On Haiku, New Directions Publishing Corporation, New York, 2018, p. 4. ↩︎

31. Altrove ho criticato l’uso del termine “enlightenment da parte di D. T. Suzuki (鈴木大拙貞太郎 1870 – 1966), per esprimere il concetto di satori: «Zen is discipline in enlightenment […] it is Zen that makes most of enlightenment, or satori» (Suzuki D. T., Zen and Japanese Culture, New York: Bollingen Foundation Inc., 1959, p.p. 5-6), anziché il più corretto (anche etimologicamente, sia in sanscrito che in giapponese) “awakening”. Oltre a ciò, il concetto di “illuminazione” fa pensare a una fonte luminosa, cioè a qualcosa che investe l’individuo dall’esterno (in questo senso, può essere riferito anch’esso allo haiku, ma qui preferisco il concetto di rivelazione” cioè “disvelamento”), mentre il “risveglio” avviene dall’interno. Fra gli studiosi, William K. Mahony difende l’uso di “enlightenment”, mentre Robert M. Gimello lo ritiene giustamente fonte di possibili fraintendimenti. ↩︎

32. Matsuo Bashō, L’intégral des haïkus, La Table Ronde, Paris, 2012, p. 49. ↩︎

33. AA. VV., ah! Matsushima, l’art poétique du haiku, Millemont: Moundarren, 2001, p. 4. ↩︎

34. Bashō, Matsuo; Keene, Donald (trad.) (1996), The Narrow Road to Oku, Tokyo: Kodansha International Ltd., p. 79. ↩︎

35. L’eccesso di parole nuoce alla poesia. Parafrasando una famosa frase di Paracelso (nato Philipp Theophrast von Hohenheim 1493-1541), si potrebbe dire che «Dosis sola facit ut poesis non fit». ↩︎

36. Zanzotto A., Haiku for a season / per una stagione, Mondadori, Milano, 2019, p. 102. ↩︎

37. Kerouac J., Book of Haikus, Penguin Books, New York, U.S.A., 2003, p. X: «Above all, a Haiku must be very simple and free of all poetic trickery». Nel suo Dharma Bums, fa dire al personaggio di Japhy Ryder (nella realtà Gary Snyder): «Un vero haiku deve essere semplice come il porridge e tuttavia capace di svelare pienamente la realtà». Già Blyth parlava di «directness, simplicity and unintellectuality». ↩︎

38. Cfr. Suzuki D., Op. cit., p. 240: «a haiku does not express ideas but […] puts forward images reflecting intuitions. These images are not figurative representations made use of by the poetic mind, but they directly point to original intuitions, indeed, they are intuitions themselves». ↩︎

39. Tuttavia, come Kerouac spiegò in un’intervista che il suo «Haiku is best reworked and revised» (Kerouac J., Paris Review interview, p. 104), così Donald Keene ci racconta che gli haiku contenuti nell’Oku no hosomichi furono rimaneggiati a lungo da Bashō e che «He undobtedly revised the work many times before it reached is present state» (in Bashō, 1996, Op. cit., p. 13), ma ciò riguarda la forma, non la sostanza del componimento. ↩︎

40. Dickinson E., Op. cit., 1755, p. 1624. ↩︎

41. Dickinson E., Op. cit.: «The Angle of Landscape – / That every time I wake – / Between my Courtain and the Wall / Upon an ample Crack – / Like a Venetian – waiting – / Accosts my open eye – Is just a Bough of Apples – / Held slanting, in the Sky – / The pattern of a Chimney – / The Forehead of a Hill – […]», 375, p. 408; «By my Window have I for Scenery / Just a Sea with a Stem – / If the Bird and the Farmer – deem it a “Pine” – […]», 797, p. 892. ↩︎

42. Ghilardi M., La radice del sole, Longanesi, Milano, 2019, p. 132. ↩︎

43. «Dal bambù dobbiamo imparare l’essenza del bambù, dal pino l’essenza del pino. Questa è la via dell’arte» (cit. in Ueda S., Zen e filosofia, trad. it., L’Epos, Palermo, 2006, p. 211). «Dal pino impara il pino / E dal bambù il bambù» (cit. in Heisig J. W., Filosofi del nulla, trad. it., L’Epos, Palermo, 2007, p.487. ↩︎

44. Lingiardi V., Mindscapes, Raffaello Cortina, Milano, 2017, p. 36. ↩︎

45. Cfr. Pound E.: In a Station of the Metro: «The apparition of these faces in the crowd; / Petals on a wet, black bough» (AA. VV.; Kacian, Jim; Rowland, Philip; Burns, Allan (a cura di) (2013), Haiku in English, New York: W. W. Norton & Company, p. 1). Viene talora considerato il primo haiku scritto in inglese e si ipotizza che gli fosse stato ispirato da una stampa di Suzuki Harunobu (鈴木 春信 1725 c.-1770). ↩︎

46. Dickinson E., Op. cit., 500, p. 554. ↩︎

47. Dickinson E., Op. cit., 668 (che però riporta “Melody”, anziché il più frequente ”Harmony”), p. 760. ↩︎

48. Fu Shiki, un secolo dopo, a evidenziarne l’importanza letteraria, paragonandolo a Bashō. ↩︎

49. Traducibile con “buono e generoso stupidone”. ↩︎

50. Si pensi alla ceramica raku (楽焼), il cui pregio sta proprio nella sua asimmetria, ruvidezza e ricercata imperfezione. ↩︎

51. «The old pond, yes! / – the water jumped into / By a frog» (Kerouac). «Antico stagno / la rana immobile / silenzio d’acqua» (Fusco). ↩︎

52. Ueda, Makoto (2003), Far Beyond the Field, New York: Columbia University Press. ↩︎

53. Kuroda, Momoko (1995), Un albero un’erba, Roma: Empirìa. ↩︎

54. Nel 1911, Natsume Sōseki (1867-1916), rispondendo a un giornalista, aveva escluso che lo hobby dello haikai esistesse in Occidente, affermando che fosse unico in Giappone (Sato, 2018, p. 50), forse perché si rifiutava di qualificare haiku i componimenti non fedeli alla tradizione, alla quale lui si atteneva («旅にやむ夜寒心や世 は情け tabi ni yamu yozamu kokoro ya yo wa nasake»). ↩︎

55. AA. VV.; Higginson, William J. (a cura di) (1996), Haiku World – An International Poetry Almanac, Tokyo: Kodansha International. ↩︎

56. AA. VV.; Kacian, Jim; Rowland, Philip; Burns, Allan (a cura di) (2013), Haiku in English, New York: W. W. Norton & Company. ↩︎

57. Gordon, Gordon (2017), Is that all you people think about?, London: Penguin Random House. ↩︎

58. Wright, Richard (1998), This Other World, New York: Arcade Publishing. ↩︎

59. Borges, Jorge L. (1985), Tutte le opere, Milano: Arnoldo Mondadori, p. 1248. ↩︎

60. Zanzotto, Andrea (2019), Op. cit. ↩︎

61. Valente, Maria Laura (2019), Hatsuyume, Roma: La Ruota Edizioni. ↩︎

62. Bollas C., “Intervista” in Molino A., Liberamente associati, trad. it., Astrolabio, Roma, 1999, p. 14. ↩︎

63. Il testo viene chiamato con lo stesso nome del suo autore Zhuāngzǐ (莊子369-286 a. C.?), in giapponese Sōshi. ↩︎

64. La “musica concreta”, ideata da Schaeffer nel 1948, era stata anticipata dai futuristi italiani (L. Russolo, L’arte dei rumori, 1913) e da Cage. ↩︎