Il disegno giapponese (terza e ultima parte)
Tra manga e comics

Franco Fusco -

Per rispettare la ricchezza dei suoi contenuti, questo articolo è stato diviso in 3 parti. Potete leggere la prima parte e la seconda parte seguendo i rispettivi link.

Altro autore assai popolare del genere gekiga è Kojima Gōseki, autore della saga di Kozure Ōkami pubblicata su Manga Action dal 1970 al 1976. È la storia del rōnin Ogami Ittō, che percorre il Giappone feudale in cerca di vendetta, trascinandosi appresso in un carretto il piccolo figlio Daigorō. Nelle scene dei duelli è evidente il riferimento alle immagini di Kuniyoshi e Yoshitoshi

Il fumetto di Kojima, dal 1987, è stato pubblicato in America col titolo di Lone Wolf and Cub (“Lupo solitario e cucciolo”) con copertine disegnate da Frank Miller. Inoltre ne è stata tratta una serie di film televisivi, visti anche in Italia col titolo Samurai - Lupo solitario.

Dello stesso genere sono i fumetti ispirati alla vita del maestro di spada e scrittore Miyamoto Musashi (1584-1645), col titolo Vagabond

Un fumetto particolarmente curato nella riproduzione degli ambienti dell’epoca Tokugawa è Sandarabocchi di Ishimori Shōtarō (1975). La vicenda gravita intorno a un piccolo negozio di giocattoli, collocato accanto all’ingresso dello Yoshiwara, il quartiere dei piaceri a Edo. Il suo proprietario, anziano artigiano con una figlia, e il giovane commesso alternano la loro attività di negozianti con quella più lucrosa di shimatsuya (arrangiatore), consistente nel comporre le questioni economiche, ma anche sentimentali e formali, che sorgono fra gli abitanti e i frequentatori dello Yoshiwara. Insomma, una specie di Sindaco del rione Sanità di edoardiana memoria. Nelle sue vignette è evidente la derivazione stilistica dalla tradizione dell’ukiyo-e e da Hiroshige in particolare.

Un posto a parte nel fumetto moderno occupa Akasegawa Genpei, artista satirico e fortemente politicizzato, detto ‘il disegnatore della nuova sinistra’, autore, a partire dal 1970, di storie violentemente contestatorie del sistema e piene di simbolici rimandi alla classe dominante, in netto contrasto col testo mutuato da favole tradizionali. È il caso della versione deformata di Hanasaka jijī (“Il nonno che fa fiorire i ciliegi”), nelle cui immagini compaiono politici di governo, Trotzkij e poliziotti picchiatori, mentre le parole riproducono fedelmente l’originale storia edificante. Nella ‘cattiveria’ delle sua creazioni grafiche non mancano espliciti riferimenti alla tradizione sado-masochistica del primo Novecento giapponese.

Fra la fine degli anni Sessanta e il principio degli anni Settanta, ci fu un’altra piccola rivoluzione. Fin dall’inizio degli anni Cinquanta era stato utilizzato il fumetto erotico come strumento alternativo per la satira. Coi primi anni Sessanta, avevano cominciato ad apparire immagini di nudo (pur autocensurate) su riviste destinate ad un pubblico di adolescenti. La produzione aveva già proliferato in decine di pubblicazioni, quando vi si inserì, con la propria genialità luciferina, Nagai Gō. Si racconta che, avendo osservato alunni delle scuole elementari sfogliare giornali pornografici in edicola, Nagai ebbe l’ispirazione di ‘inventare’ il genere erotico per fanciulli. Nacque così Harenchi gakuen (“Scuola senza pudore”), pubblicato tra il 1968 e il 1970 sul settimanale Shōnen Jump. Con i suoi nudi integrali e le scene perversamente orgiastiche ambientate in una scuola, suscitò uno scandalo di portata nazionale e ne fu proibita la lettura dalle autorità scolastiche, vietandone la vendita ai minorenni. In seguito, Nagai si dedicò al genere fantastico (Maō Dante, Debiruman, Shuten Dōji, Majingā zetto, ecc.), pur tornando occasionalmente all’erotismo.

L’edizione americana del fumetto di Kojima aprì la strada alla pubblicazione sistematica dei manga negli U.S.A.. A partire dal 1988, anche il thriller fantascientifico Akira di Ōtomo Katsuhiro (il cui stile era stato influenzato dai Francesi e dagli Americani e che fu il primo autore del dopoguerra a disegnare i Giapponesi con occhi più piccoli e aspetto ‘asiatico’) venne edita dalla Marvel Comics con l’aggiunta dei colori all’originale storia in bianco e nero. Il teppista in motocicletta dotato di poteri sovrumani e gli altri personaggi, che agiscono in una Neo-Tōkyō post-nucleare governata da militari e politici senza scrupoli, hanno ormai ben poco (anche graficamente) della tradizione giapponese, ma assomigliano agli eroi della moderna cultura fumettistica statunitense quanto basta per piacere ai giovani lettori del ‘mercato globale’. Per questo il fumetto è stato subito seguito dalla versione in cartone animato, riscuotendo un successo entusiatico dovunque.

L’industria dei manga, in Giappone, è diventata un grosso affare economico: nel 1980, la sola casa editrice Kodansha aveva pubblicato 279 nuove storie in 47 milioni di copie e i numeri sono oggi aumentati con progressione geometrica, registrando in un anno (dati del 1995) 265 titoli e vendite per 1.594,75 milioni di copie! Questo fa sì che gli autori affermati siano veri e propri divi, superpagati, ammirati e intervistati sugli argomenti più diversi, come e più dei cosiddetti uomini di cultura.

Di solito si individuano cinque categorie alle quali i manga sono dedicati: shōnen (ragazzi), shōjo (ragazze), redisu (ladies, signore), seijin (adulti) e seinen (giovani, che però comprendono uomini dai quindici ai quarant’anni). All’interno di esse, gli obiettivi di mercato si moltiplicano, cosicché ci sono manga sulla cucina,

per studenti e per operai, per adolescenti romantiche e per ragazze disinibite, per madri di famiglia e per donne trasgressive, per impiegati sedentari e per sportivi e, fra questi, per i seguaci dei vari sport: judō, calcio, pallacanestro, base-ball, golf, ping pong, ecc.; e ancora per appassionati di mahjong e persino di pachinko; oltre che ovviamente per gay.

Poi ci sono i manga erotici, i quali evidenziano una strana contraddizione: la Costituzione giapponese vieta ogni forma di censura, tuttavia l’art.175 del Codice Penale non consente la distribuzione, la vendita o l’esposizione di materiale stampato osceno; ne consegue che i peli pubici, gli organi genitali degli adulti e i rapporti sessuali non possono essere mostrati, ma possono invece essere disegnati i sessi dei bambini.1 Per questo motivo, i manga erotici vengono assoggettati a ridicole forme di autocensura (con l’uso di reticoli tipografici o altri artifici, più adatti ad attirare l’attenzione che non a nascondere), e presentano spesso personaggi femminili (sempre più frequentemente disegnati da donne), dal preoccupante aspetto prepuberale. In questo periodo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale sul fenomeno della pedofilia, fa uno strano effetto vedere immagini di fanciulle impuberi (peraltro dotate di tutti gli altri attributi dell’età adulta) legate e sottoposte a varie forme di violenza. È il caso di Chōkyō gohōshi ressun (“Lezioni di asservimento sessuale”) di Shiho Yoshino, raccolta di vari racconti per adulti tutti imperniati sul sadomasochismo, divenuto una costante della letteratura e delle arti figurative giapponesi, soprattutto nel secondo dopoguerra.2 Ma anche i manga per teenagers o ragazzini non sono da meno: significativi, in proposito, Rapeman, che sembrava approvare la violenza alle donne, e Angel (sottotitolo “Highschool Sexual Bad Boys and Girls Story”) di U-jin con le sue storie di giovani studenti impegnati in attività erotiche tanto spinte da aver provocato la reazione dell’opinione pubblica e l’interruzione della serie, dopo il terzo volume; per arrivare a Beast, nato nel 1986 su Erotopia per la penna di Maeda Toshio, pieno di accoppiamenti fra fanciulle e rettili o mostri ripugnanti di ogni specie e con una quantità di squartamenti, stupri e violenze ero-splatter spinti fino a superare i limiti del cattivo gusto. Nella schiera di disegnatori erotici spicca Miyanishi Keizo, artista raffinatissimo, che con un tratto sottile e sinuoso rappresenta scene degne di Hans Bellmer o di Franz von Bayros, pur conservando vivo il ricordo dell’ukiyo-e. Per esempio, nel frontespizio di Itsuka monogatari (“Racconto di cinque giorni”) raffigura un samurai che stringe fra i denti per i capelli una testa mozzata, mentre col braccio sinistro cinge la vita di un corpo capovolto di donna, della quale si appresta a tagliare il sesso con la katana (spada) che impugna nella mano destra.

Ma l’influenza degli stili nel fumetto viaggia ormai in entrambe le direzioni. I Giapponesi hanno assimilato la lezione degli Occidentali e i volti dei personaggi disegnati da Jirō Taniguchi hanno ormai ben poco di orientale.

I mangaka si sono anche impossessati di molti personaggi della cultura e della storia occidentali, adattandoli alla propria tradizione figurativa: per esempio, il vampiro (protagonista del manga Vampire e dell’anime Don Dracula, entrambi ideati da Tezuka, dell’anime Vampire Hunter D disegnato da Amano Yoshitaka, ispirandosi non a Bram Stoker, ma ai romanzi di Kikuchi Hideyuki, e ancora dell’anime Yami no teio kyuketsuki Dracula (“Dracula il vampiro, signore delle tenebre”) della Toei Animation) o Don Giovanni nell’omonimo manga di Fukuyama Yoji, dove compaiono frequenti riferimenti iconografici agli shunga e al o ancora l’americano Spider Man, ripreso da Ikegami Ryoichi, che ha saputo farne un personaggio nuovo nelle motivazioni profonde e nelle scelte comportamentali.

Recentemente ha suscitato grande interesse il manga Thermae Romae di Mari Yamazaki (1967) tratto dal film omonimo.

Interessante la grafica raffinatissima di Suehiro Maruo (1956), autore di manga surreali, grotteschi e talvolta insopportabilmente splatter.

E merita ricordare naturalmente i manga tratti dagli anime di Hayao Miyazaki (1941).

Sono stati nipponizzati anche personaggi facenti parte della cultura pop americana, per esempio Batman e Tarzan, e sono stati adottati personaggi femminili mutuati dalla storia, come Maria Antonietta, o inventati, ma dalle inconfondibili forme occidentali.

Addirittura vengono operate singolari trasformazioni di soggetti reali in personaggi di fantasia, come nel manga di Moto Hagio Edgar e Allan Poe, o si reinventano personaggi romanzeschi, come nella serie Lupin III di Monkey Punch (1967), liberamente ispirata ai romanzi sul ladro gentiluomo Arsène Lupin di Maurice Leblanc.

Talvolta è la scenografia a essere occidentale, come nel caso di Forget-me-not di Tsuruta Kenji, ambientato nella Venezia di oggi o del famosissimo (anche in Italia) Berusayu no bara (“La rosa di Versailles”, da noi “Lady Oscar”) di Ikeda Riyoko, storia di una ragazza in abiti maschili, che diventa comandante delle guardie di Maria Antonietta, nella Versailles dei tempi della rivoluzione francese (nel 1974, la vicenda è stata portata sul palcoscenico dal gruppo teatrale femminile Takarazuka, riscuotendo un successo strepitoso).

Spostandosi verso ovest, colpisce l’influsso esercitato dai manga in Corea, dove, dopo un lungo periodo iniziale di pedestre imitazione, è nato un genere autonomo, il manhwa, che negli anni Novanta ha conosciuto un vero boom, grazie soprattutto al disegnatore Hyun-se Lee, figura carismatica, la cui opera più ambiziosa, Chunguk ui Shinhwa (“I miti del Regno Celeste”: narrazione della mitologia asiatica, dagli originari accoppiamenti fra dèi e animali all’avvento della civiltà), è stata tuttavia tacciata di pornografia ed è scomparsa dalla circolazione, a seguito dell’entrata in vigore di un decreto censorio, nel luglio 1997.

Da parte loro, i ‘veri’ Occidentali sempre più spesso imitano gli autori del Sol Levante. Così Frank Miller, in particolare nel suo Rōnin, del 1983, ma anche nel successivo Batman: The Dark Knight Returns, si rifà a Kojima nel dinamismo delle immagini e nel taglio delle vignette e, assieme a Geoff Darrow, all’amato Tezuka, ‘inventando’ un Astro Boy americano col personaggio di Rusty the Boy Robot, del 1995. Nel 1983, nel fumetto americano Star Wars, opera di Tom Palmer e del fan di manga Jo Duffy, appariva un personaggio manifestamente ispirato al famoso Captain Harlok di Matsumoto Leiji. Evidente l’influsso dello stile narrativo dei manga anche nell’opera Maus di Art Spiegelman, vincitore del premio Pulitzer, mentre Frank Frazetta spazia dai disegnatori di ukiyo-e a Nagai Gō.3 Senza dire che, in generale, la dimensione degli occhi dei personaggi dei comics americani si va via via ingrandendo in modo inequivocabile e l’innovativa suddivisione della pagina, tipica dei manga, ha profondamente modificato le scenografie delle storie pubblicate dalla Marvel, influendo anche sul grafismo di personaggi quali Superman, Batman o Wonderwoman.

Ormai su molte riviste specializzate si parla di ‘American manga’, categoria alla quale appartiene, per esempio, il fumetto Dirty Pair disegnato da Adam Warren (con Saito Tomoko), uscito agli inizi degli anni Novanta e ispirato ad un popolare romanzo giapponese e a una serie di anime, che peraltro in patria non divenne mai un manga. La storia fantascientifica sposa il senso dell’azione tipicamente giapponese al gusto splatter americano.

Anche in Europa, gli autori di fumetti hanno recepito certi modi di narrare la storia, tipici dei manga: basti pensare, per l’Italia, all’evoluzione narrativa di Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Crepax, anche nei lavori fatti scherzosamente assieme a Pratt, Paolo Eleuteri Serpieri.

Anche in Francia si è assistito a un analogo fenomeno evolutivo, particolarmente evidente in Moebius (Jean Giraud 1938-2012) ed Enki Bilal

Le frontiere culturali tendono a cadere, le dimensioni spazio-temporali vengono profondamente modificate dalle macchine, sempre più veloci e tecnologicamente avanzate. Internet favorisce incontri e scambi virtuali nell’etere. I computer consentono contaminazioni di immagini e creazioni di apparenze più realistiche della realtà. Non si può più parlare di “Città manga” (G. Nitschke) giapponese, ma si deve già guardare al ‘mondo manga’ o piuttosto mancomics o comanga e forse è venuto il momento di abbandonare le espressioni, ‘fumetto’, ‘comics’, ‘bande dessinée’, ‘historietas’, ‘manga’, “tutte amabilmente spregiative” (come osservò René Clair) e inventare una nuova definizione più consona a questo moderno mezzo di “comunicazione di massa”, al quale dichiaratamente si ispira anche una taishu sakka (scrittrice popolare) come Yoshimoto Banana, la quale, sia pure con sommo disappunto dei difensori della ‘pura letteratura’ (junbungaku), si è ormai conquistata di pieno diritto un posto nella storia della letteratura ‘seria’.

Forse un giorno scopriremo di non avere vissuto di vita propria, ma di essere stati disegnati, fin dalla nascita, dal pennello o dalla penna inesauribile di un Disegnatore ironico, violento, lascivo, crudele, ma anche pietoso, benefico e amorevole e forse, nella serenità della vignetta conclusiva, mentre svanirà nell’aria l’ultima nuvoletta silenziosa, capiremo di avere frainteso tutto e ci sarà svelato il senso vero dell’intera storia.




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Note

  1. Lent J. A., Op. cit., pag.234.
  2. Per un esempio clamoroso dei limiti a cui può giungere l’esasperazione di questo genere, si vedano le illustrazioni deliranti di Saeki Toshio.
  3. A proposito dell’influenza dello stile e dell’inventiva di Nagai Gō su fumettisti occidentali, merita mettere a confronto le figure da incubo ideate per i personaggi infernali di Debiruman e quelle create dai disegnatori italiani della serie Dylan Dog.
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