Giappone e montagne (prima parte)
Sguardi, potere e alterità
Scritto da www.mariannazanetta.com - Introduzione
Natura e sacro sono due termini che vengono spesso accostati quando si parla di cultura giapponese. In particolare le montagne, yama (che costituiscono più del 70% del territorio nipponico) sono state e sono tuttora oggetto di culto, di adorazione e di fascinazione. Le montagne giapponesi sono territori sacri, dove l’essere umano non dovrebbe permettersi di entrare; sono la dimora del soprannaturale in tutti i suoi aspetti, e raccolgono alle loro pendici tutti i vari spiriti e spettri di varia potenza e indole. Numerosi sono i culti e le correnti che ruotano attorno alla sacralità della montagna, dallo Shugendo a varie pratiche delle scuole buddhiste.
Tuttavia, quando parliamo di natura e sacro in Giappone siamo spesso vittime di un immaginario ereditato da decenni di ideologie, che hanno volutamente rimosso alcune dinamiche culturali e storiche e si sono spesso mescolate a riflessioni duramente nazionalistiche. Dobbiamo allora guardare a questa relazione con occhi nuovi, per poterne assaporare con più piacere le sfumature e le trasformazioni. Per farlo, dobbiamo procedere per piccoli passi, a partire da una riflessione su cosa sia il Sacro, su come questo si innesti sul binomio controverso natura-cultura, e soprattutto su come queste riflessioni si articolino in terra giapponese. E dobbiamo fare attenzione all’impiego del termine stesso di “Giappone” e di “giapponesi”, perché la storia recente ci mostra la complessità di specifiche dinamiche in cui tradizioni locali, istanze politiche e forza ideologica si sono sommate per elaborare un'immagine ad hoc che però non sempre riesce a rappresentare la realtà religiosa e quotidiana.
Infine, non possiamo non riflettere sul nostro sguardo rispetto a questa dimensione: gli immaginari più diffusi nel presente, e quelli più conosciuti negli ambiti accademici internazionali, non sono per forza gli unici né i più longevi, e che spesso si configurano come la narrazione della cultura dominante, di coloro che hanno imposto sul paesaggio la loro specifica narrazione.
Sacro, natura e trasformazioni politiche sono i poli centrali della indagine. Solo guardando con occhi nuovi a questi mondi possiamo davvero comprendere il rapporto di questa cultura con l’ambiente circostante e in particolare con la montagna.
Ma prima ancora di iniziare questo cammino, tocca ripetere quello che probabilmente ho già detto molte volte (scusate la ridondanza); il concetto di religione e di divinità sono qui molto distanti da quello che conosciamo noi, e le credenze della popolazione nipponica sono variegate e composite discostandosi dalla concezione di fede e appartenenza tipica del pensiero giudaico-cristiano. Come ci ricordano tutti i libri a tema, in Giappone abbiamo due maggiori religioni presenti sul territorio sono lo Shintō1 (spesso descritto come una forma di animismo politeistico che adora i kami, essenze divine) e il Buddhismo (prevalentemente quello di matrice cinese). Accanto ad esse troviamo poi una serie di realtà sincretiche chiamate Nuove Religioni, e varie minoranze religiose, tra cui Cristianesimo e Islam2. La popolazione, per la maggior parte, pratica al contempo Shintō e Buddhismo, accompagnandoli ad una colorita varietà di culti popolari di carattere regionale.
Questo mosaico così variegato ha avuto inizio tra il VI e il VIII secolo d.C., con l'introduzione del Buddhismo nel 538 d.C. dalla Corea.
Dopo un primo periodo di conflitto nel VI secolo, queste due religioni hanno trovato diversi modi di interagire come ad esempio con l'emergenza del culto honji suijaku: entità buddhiste (Buddha, Bodhisattva, ecc), chiamate honjibutsu (Buddha originali), si manifestavano qui in Giappone come suijaku (“traccia”) per facilitare la salvezza di tutti gli esseri viventi.
Questa lunga convivenza ha subito un duro arresto con l'avvento della Restaurazione Meiji del 1868: il governo giapponese ha deciso di imporre la netta separazione tra Shintō e Buddhismo, attraverso il processo chiamato shinbutsu bunri (letteralmente “separazione tra kami e Buddha). Lo Shintō venne elevato a morale di Stato (nonché fonte assoluta della legittimazione imperiale) e il Buddhismo si vide invece negato ogni supporto pubblico o privato; molti templi furono espropriati, molti monaci furono costretti a tornare al laicato, e molte opere d'arte vennero distrutte. Per quanto nel sentore collettivo questa separazione non abbia mai davvero attecchito, solo la nuova Costituzione del 1947 reintroduceva la completa libertà di culto. Lo Shintō intanto veniva riportato nell'alveo delle religioni, e veniva in questo modo espropriato di qualsiasi aiuto o sostegno statale.
Parlare di montagna in questo panorama religioso composito, vuol dire riconoscere alla montagna una potenza interpretativa e culturale unica, e la sua capacità di rappresentare l’Altro per eccellenza. Ma per arrivare a definire queste dinamiche, occorre riflettere su alcune questioni preliminari, tra cui appunto la concezione di sacro e di natura in territorio giapponese, tenendo presente che si tratta di riflessioni e specifiche sensibilità in cui le due religioni principali agiscono contemporaneamente e non sempre restituiscono dei confini netti e precisi.
Premesse: religione, natura e nazionalismo
Parliamo di sacro, di natura e di cultura
Nell’immaginario collettivo, il Giappone considera la natura come una dimensione sacra e carica di potenze e presenze soprannaturali. Tutto può essere kami, tutto può essere oggetto di venerazione. Se questo sembra applicarsi con varietà a fiumi, alberi, rocce e quant’altro, tanto più sembra essere vero per la montagna.
La montagna è la dimensione sacra per eccellenza, dimora di kami e spettri, spaventosa e protettrice allo stesso tempo. Ma cosa intendiamo quando parliamo di sacro? Si tratta di una riflessione immensa, affrontata a più riprese da antropologi, sociologi filosofi e numerosi altri studiosi di scienze umane (da Eliade a Durkheim, per citare solo due nomi a me familiari). Chi studia storia o scienze delle religioni non può fare a meno di affrontare questa riflessione, con tutte le complessità e le ramificazioni che si porta dietro.
Per lungo tempo il sacro è stato inteso, studiato e narrato come un’entità astorica, sostanziale, presente in un luogo o in un oggetto a prescindere da qualsiasi ingerenza o relazione esterna. Interpretazione che ha avuto grande successo e che solo con analisi più recenti ha dimostrato tutte le sue problematiche e lacune. Queste nuove indagini (Anttonen, 1996, 2000), Demerath, 2000, 2001, e Lynch, 2012 tra gli altri) hanno portato, nel corso dei decenni, a intendere il sacro non più come qualità intrinseca di specifici luoghi, oggetti e persone, ma piuttosto come una categoria prodotta culturalmente e socialmente: il sacro diventa attributo esterno, prodotto e riprodotto attivamente attraverso le pratiche rituali, spaziali e discorsive.
Occorre quindi tenerlo bene a mente: anche quando parliamo di natura, la sacralità è una produzione culturale che si proietta su specifici paesaggi. Questi possono avere caratteristiche fisiche particolari, ma in generale il sacro dipende dai contesti culturali di riferimento che nel tempo hanno consolidato o modificato le tradizioni e le credenze.
Una volta individuata la dimensione sacra, a questa si affiancano specifiche pratiche spaziali, come la demarcazione fisica, i movimenti e gli spostamenti ritualizzati (ad esempio i pellegrinaggi) e la costruzione di edifici di culto: lo spazio sacro viene così individuato, rimarcato, prodotto e riprodotto. In linguaggio “tecnico” si parla di sacralizzazione: un processo di produzione di sacralità che, se rivolta allo spazio naturale, porta alla sua trasformazione, e alla sua appropriazione da parte della sfera socio-politica. Ecco un nodo fondamentale per procedere nel discorso: sacro e politica non sono assolutamente disgiunti, ma spesso il primo è strumento fondante per lo sviluppo delle sfere di potere politico e sociale e per la loro legittimazione. Questo processo di sacralizzazione implica un’azione culturale importante, perché mira a trasformare le relazioni dell’essere umano con il mondo circostante e a interpretarle in interazione con le forze soprannaturali. Ma quando parliamo di mondo circostante, di natura, cosa intendiamo? La domanda sembra offrire una risposta scontata, ma i confini della natura son lungi dall’essere chiari, e si innestano sul binomio “natura/cultura”, spesso citato negli studi filosofici e antropologici (Descola, 2014). Questa dicotomia rappresenta uno dei più potenti e persistenti miti della modernità, che porta con se immense conseguenze sulla nostra “fruizione” della natura e sulla comprensione contemporanea del mondo e della società. La natura potrebbe essere definita come l’insieme delle specie animali non umane, il mondo vegetale e tutti quei paesaggi che sembrano privi di influenza umana. Pongo l’attenzione sul termine “sembrano”. Questa dimensione è concepita come l'origine della vita, precedente alle azioni umane e concettualizzata come pura e selvaggia. A questo mondo immacolato si oppone la cultura che, per contrasto, è l’esito dell’azione umana, antitetica alla natura, e comprendente categorie come tecnologia, società, politica, arte ecc.
Una delle conseguenze di questa suddivisione binaria è che, se si accetta (a volte) che la cultura sia soggetta al cambiamento storico e alla trasformazione, il reame naturale è inteso come una dimensione astorica, pre-discorsiva e universale, che esiste indipendentemente dalla cultura umana. È sufficiente guardare alla nostra contemporaneità per comprendere quanto questa convinzione sia falsificata dagli eventi degli ultimi anni.
Ad oggi, gli studi vanno in direzioni ben diverse (basti citare Philippe Descola, Donna Haraway, e Tim Ingold). Il confine tra i due poli si sfuma fino a scomparire, e a cancellare la distinzione aprioristica tra natura e cultura. Scompare l’idea di una “natura pura” immune all’azione umana, e si riconosce che anche i prodotti culturali sono incorporati in una rete relazione che va al di là dell’azione umana.
Ma ancora più interessante è che la nozione stessa di “natura”, viene ora considerata una creazione particolare di una data cultura, con specifici caratteri storici e locali. Non esiste più una “natura” universale: la sua interpretazione dipende sempre dai modi specifici in cui la vivono e la trasformano nei diversi contesti globali.
Natura e sacro in Giappone
Questa premessa ci è stata vitale per arrivare al cuore del nostro discorso: come si comporta il Giappone dinnanzi alle tematiche di “sacro” e di “natura”? Ovvero, cos’è la “natura sacra” per la cultura giapponese? Tenendo a mente quanto detto in apertura, ovvero che qui l’approccio alla religione e al sacro tende a differire notevolmente dalle tradizioni giudaico-cristiano, dobbiamo anche ricordare ancora una volta che “la cultura giapponese” non è un monolite che parla una sola lingua, ma un complesso sistema che accoglie nelle sue maglie spinte e tendenze anche di stampo opposto. Questo mosaico è reso più complesso dalle dinamiche socio-politiche dell'ultimo secolo, e dalle diverse azioni di propaganda che, durante e dopo il conflitto, hanno agito per costruire una specifica idea di “giapponesità” e di “nazione giapponese”, e di trasmetterla al resto del mondo. Si tratta di una precisa volontà antropopoietica di costruzione identitaria, dove sacro e natura sono diventate alcune delle parole chiave per disegnare l’unicità del Giappone e la sua distanza rispetto all’Occidente.
Ma al contrario di quanto appare, anche qui il termine “natura” è complesso e tutt’altro che univoco: la narrazione popolare vuole che “i” giapponesi abbiano un modo unico di relazionarsi alla natura, in forte contrasto con la tendenza tutta occidentale di dominare l’ambiente. Si parla quindi di amore, apprezzamento intuitivo per le bellezze naturali, coesistenza armoniosa: è tuttavia complesso capire, in queste dichiarazioni, di che cosa si parli quando si parla di natura. Questo perché siamo davanti a un lavoro specifico di costruzione di una tradizione che non è univoca e non è astorica. Inoltre, sembra ormai riconosciuto negli studi che il mito dell'amore giapponese per la natura risalga, paradossalmente, proprio ai costrutti orientalistici della cultura giapponese come emblema di raffinatezza e sensibilità (visioni che emergono per esempio nell’opera di Lafcadio Hearn3) e all’opera di autori giapponesi confuciani e del kokugaku come l’ormai famosissimo Motoori Norinaga (1730-1801)4. Il suo lavoro si focalizza soprattutto sull’analisi delle narrazioni mitiche del Kojiki5 e sui classici letterari del Giappone antico, come il Man’yōshū6 e il Genji Monogatari7. Il suo obiettivo è certamente quello di liberare la cultura giapponese dall’influenza cinese, e puntare i riflettori su quelle opere che sembrano depositari dei caratteri puramente nipponici come appunto il particolare rapporto dell'uomo con il sacro e con la natura circostante.
Il processo di riscoperta della “vera essenza” del Giappone si incrocia poi, nella seconda metà del XIX secolo, con un periodo di rapida modernizzazione e industrializzazione in cui la nozione di “nazione”, nata nel contesto europeo e con profonde tendenze imperialiste. In questo processo di costruzione deliberata della nuova identità, l'élite giapponese incorpora al contempo l’ideologia imperialista e i miti dell’orientalismo europeo che però vengono reinterpretati e utilizzate come strumenti per la nuova “giapponesità”.
In un processo di riappropriazione, quindi, alcuni degli attributi che gli orientalisti avevano usato come sinonimo di debolezza orientale furono ridefiniti come punti di forza. I miti che originariamente avevano agito per affermare la superiorità occidentale furono così creativamente incorporati nel discorso giapponese sulla superiorità orientale: laddove gli occidentali erano ancora concepiti come tecnologicamente e militarmente superiori, la cultura asiatica (espressa al meglio in Giappone) era superiore per spiritualità, arte e moralità.8
Questo sguardo sull’essenza del Giappone è stato poi ripreso all’indomani della resa. L’amore per la natura rimane un marcatore molto significativo per differenziare la cultura nipponica dall’Occidente, percepito ancora di più come violento e aggressivo. La “natura” quindi non viene definita in maniera specifica ma rimane uno strumento retorico oppositivo contro le visioni del mondo “occidentale” e al contempo romanticizzare l’Oriente intero di cui il Giappone si sente parte. La forza di questa costruzione è evidente nel fatto che viene tuttora riproposta nei testi letterari e popolari, nella pubblicità, negli scambi internazionali. È un’immagine acquisita e interiorizzata dentro e fuori il Giappone: la natura domina il quotidiano nelle immagini che fluttuano nelle città: stagionalità, ciliegi, foglie d'acero, scimmie, cervi, neve, e naturalmente i giardini.
Ad ogni elemento della quotidianità (dalle insegne ai vagoni del treno) è donata una nuova bellezza proprio attraverso le immagini nella natura, che avrebbero il compito di promuovere e forse continuare a convincere di questo supposto amore innato per la natura e al suo legame con il bello, sensazione ed emozione che esisterebbe fin dai tempi antichi.
Il sottotesto neanche troppo sottinteso è che la cultura giapponese, a differenza di quella occidentale, ha saputo mantenere la connessione con la natura e non alienarsi ad essa. Ci sarebbe quindi alla base della relazione una consapevolezza di fondo che garantisce alla popolazione giapponese un’esperienza più intuitiva ed emozionale del mondo naturale, esperienza preclusa agli occidentali a causa della loro tendenza alla catalogazione e al desiderio di controllo.
Note
1. Il termine Shintō, impiegato per definire i culti prebuddhisti, non appare nella letteratura classica fino all'VIII secolo. Il termine ha poi avuto successivi sviluppi e reinterpretazioni nel corso del periodo Edo (1600 – 1868) e in maniera più profonda e sostanziale nel periodo Meiji (1868 – 1912). ↩︎
2. I dati relativi al 2015 (Agenzia Giapponese Per gli Affari Culturali) restituiscono la seguente immagine: 70,4% della popolazione pratica lo Shinto, 69.8 % il Buddhismo, l’1,5% il Cristianesimo e il 6.9% altre religioni minoritarie. ↩︎
3. Scrittore di origine greco-irlandese naturalizzato giapponese. ↩︎
4. Il XVIII e il XIX secolo hanno visto la costruzione di un'identità nazionale e una crescente immagine della nazione o della “razza” giapponese (minzoku o kokumin dopo l'epoca Meiji). Di importanza centrale in questo sviluppo erano i lavori di diversi studiosi che reagivano contro la predominanza di idee religiose e intellettuali straniere (cinesi), puntando l'attenzione quindi sulle antiche cronache giapponesi. Queste ricerche sono chiamate kokugaku “nativism” / “national learning”. ↩︎
5. Lett. “Vecchie cose scritte”, è la più antica cronaca esistente in Giappone e il primo testo di narrativa giapponese pervenutoci, composto nei primi anni del VIII secolo. ↩︎
6. Lett. “Raccolta di diecimila foglie” è la più antica collezione di poesie di waka in giapponese giunta fino a noi risalente probabilmente all’VIII secolo. ↩︎
7. Lett. “Il racconto di Genji” è un romanzo dell'XI secolo scritto dalla dama di corte Murasaki Shikibu; è considerato il primo romanzo scritto in giapponese nella storia del paese. ↩︎
8. Zanetta, Natura Animata, ecc.. ↩︎