Giappone e montagne (seconda e ultima parte)
Sacralità, inclusione e alterità

Scritto da Marianna Zanetta www.mariannazanetta.com -

Montagna e risaia in Giappone

Quanto detto nella prima parte di questo saggio è necessario per comprendere la portata ideologica di alcune affermazioni e i rischi di leggere in modo astorico e acritico certe dichiarazioni programmatiche. Sono anche un punto di partenza importante per poter guardare con occhi diversi alle montagne giapponesi, quelle immense fonti di paura, reverenza e venerazione che popolano l’immaginario religioso nipponico. Come già ricordava Raveri nei suoi testi (2006, 2013), il Giappone è popolato di innumerevoli montagne sacre a cui si richiamano diverse tradizioni. Tra queste, trovo giusto ancora una volta partire da uno dei simboli più importanti, penetrato ampiamente nella cultura pop e nell’immaginario internazionale: parlo ovviamente del monte Fuji che, con 3.776 metri di altezza si attesta come la montagna più alta del Giappone.

Il Fujisan però è molto di più. È un vulcano, innanzitutto, che offre al territorio circostante una particolare configurazione e che, anche a causa di questa sua caratteristica, è stato ed è tutt’ora oggetto di numerose narrazioni mitologiche. Tante sono le leggende sulla sua origine, sui suoi poteri, sulle divinità che lo abitano (da varie divinità del fuoco a svariati kami shintoisti fino a Dainichi Nyorai, il grande Buddha di saggezza) e sui personaggi storici che lo hanno avvicinato (a partire da En no Gyoja, mitico fondatore dello Shugendō intorno al 700 d.C.).

Insieme al Monte Fuji, non possiamo non citare altri monti sacri di immensa rilevanza storica e culturale: il Kōya (prefettura di Wakayama) e lo Hiei (a cavallo tra le prefetture di Kyoto e Shiga), luoghi sacri delle scuole buddhiste Shingon e Tendai; il Tateyama (nella prefettura di Toyama) legato a svariate pratiche ascetiche e culti amidisti; lo Hakusan (una delle tre montagne più sacre del Giappone, tra le prefetture di Gifu e Ishikawa), che accoglie senza preclusioni kami shintoisti (Izanagi no Mikoto, Izanami no Mikoto, Kukurihime no Kami) e figure buddhiste (tra cui Shoichi Hakusanmyori Daibosatsu e Betsuzan Daigyoji). E come non citare il monte Osore (nella prefettura di Aomori) un altro vulcano che ospita vivide visioni degli inferni buddhisti.

Il culto delle montagne, sangaku shinko, ha radici antiche e ci parla di un’attitudine creativa e sincretica, questa si profondamente caratteristica della cultura giapponese. Dall’epoca protostorica, passando per il lungo Jōmon (14.000– 900/300 a.C.) la montagna ha popolato lo sguardo degli abitanti dell’arcipelago e si è trasformata concettualmente insieme alle immense rivoluzioni culturali che si sono succedute a partire dall’epoca Yayoi (900/300 a.C. - 300 d.C)1. Cosa succede a questo punto nella storia giapponese? Tante cose, ma tra tutte probabilmente la più rivoluzionaria è l’arrivo della risicoltura (Immamura, 1996; Mizoguchi, 2002). L’introduzione del riso permette una maggiore sicurezza nell’approvvigionamento di cibo, cosa che a sua volta facilita la diffusione di questa coltivazione e che, a sua volta ancora, porta all’adozione di uno stile di vita stanziale. È con la risaia che arriva il villaggio stabile, sato e, con molta probabilità, una crescente diversificazione e stratificazione sociale. Si crea così un'élite, che comprendeva i capi villaggio e le loro famiglie, mano a mano sempre più separata dalla popolazione comune (Takakura, 1973; Kondo, 1983).

È interessante notare come, nel corso della sua lunga storia, la risaia sia diventata uno dei simboli più persistenti della cultura nipponica: lungi dall’essere un semplice alimento, il riso è emblema della “giapponesità”, della purezza della tradizione giapponese in contrasto a chi – nell'arcipelago e fuori – consuma una dieta diversa e legata ad altri tipi di alimenti (Ohnuki-Tierney, 1993). E benché, dati alla mano, il Giappone continui a essere una terra fatta prevalentemente di montagne e foreste, non esattamente adatta alle risaie, la risicoltura ha comunque conquistato l’immaginario collettivo e lo sguardo sull’ambiente e sulla natura. E anche se le montagne sono state popolate per migliaia di anni da cacciatori-raccoglitori, da coltivatori che praticavano il “taglia e brucia”, e da boscaioli, lo stile di vita che rappresenta quasi in esclusiva la tradizione giapponese è quello della risicoltura.

E se la risicoltura ha costituito il modello dominante per le diverse comunità, allo stesso modo la sua prospettiva ha trasformato l’immaginario della montagna e ha dominato le interpretazioni che di essa si sono susseguite nel dibattito pubblico e politico.

La risaia impone una trasformazione netta al territorio: ora esiste una distinzione tra lo spazio coltivato e quello selvaggio della foresta, dell’incolto. Il tempo umano si organizza intorno a questo nuovo spazio, acquisendo ritmi precisi e scanditi, basati sui ritmi dell’acqua e l’alternanza delle stagioni. Villaggio e risaia diventano lo spazio umano per eccellenza e si pongono in netta contrapposizione a ciò che da questo spazio rimane escluso: la montagna. La risaia, ordinata e regolata, accentua per contrasto il carattere impenetrabile della montagna, con la sua vegetazione fitta e buia (Raveri, 2006). Quella che è cominciata come una distinzione di competenze e di attività si è trasformata in una cesura concettuale: da un lato il sato, che rappresenta la quintessenza dello spazio ordinato, luogo strutturato dell’agire umano; e dall’altro lato lo spazio caotico, inarticolato e selvaggio del monte. A dispetto di tutte le dichiarazioni ideologiche, anche questa immagine ripropone l’antitesi tra natura: la montagna è il regno del non umano, dove appunto non è dato entrare e dove risiedono poteri incommensurabili (kami, spiriti e morti) che non vanno avvicinati. Il territorio umano, culturale, è quello sicuro e ordinato regalato dal riso. Questa dinamica ci parla di trasformazioni culturali, di creatività e innovazioni, ma anche di giochi di potere tra chi domina le pianure e chi si muove nei boschi. Vedremo meglio tra poco questa dinamica, ma iniziamo a ricordarla: serve a tenere a mente che l’unicità (in qualsiasi cultura) è una chimera, e la narrazione più diffusa è spesso scritta da chi ha vinto il gioco del potere e può imporre il suo sguardo sul resto del mondo.

I culti delle montagne, lo abbiamo già detto, sono variegati e densi di diverse influenze religiose e culturali ma, a grandi linee, sembrano aggirarsi intorno a tre gruppi principali di alture. Il primo comprende i vulcani, dalla forma marcatamente conica; collocato sull’Anello di Fuoco, il Giappone è infatti una terra fortemente sismica e densamente popolata di vulcani attivi e dormienti. Il già citato Fuji è certamente l'esempio più rappresentativo di questa tipologia, ma possiamo aggiungere anche il monte Aso a Kumamoto, il monte Asama a Nagano, e il Miharayama a Oshima (nella zona di Tokyo). Si pensa che nell’antichità, marinai e pescatori credessero che la divinità che controllava la navigazione risiedesse sulla cima di questi alture.

Un secondo gruppo di montagne fa invece riferimento alle cime più alte e spesso innevate: il Fuji torna anche in questa categoria, ma possiamo ricordare tra gli altri anche il Tateyama, lo Hakusan e il Mitake. Su queste alture troviamo santuari e templi esoterici, e grande frequenza di pratiche ascetiche. Poiché inoltre erano fonti importanti di acqua, la predominanza della risicoltura ha riservato a queste montagne una credenza dedicata: è abbondante quindi la venerazione come fonte di irrigazione. Tra l’altitudine e l’abbondanza di vegetazione, queste vette assorbono e trattengono le precipitazioni durante l'inverno, per un lento rilascio nei torrenti durante il disgelo primaverile, assestandosi come principali fonti di sussistenza per la coltura del riso.

Nel Giappone antico questa importante relazione tra acqua e coltivazione era celebrata attraverso alcune pratiche e rituali stagionali: in primavera, quando i campi venivano sommersi prima della semina, veniva invocato yama no kami, il kami della montagna, e ritualmente invitato a discendere nelle risaie. Nel processo, veniva trasformato in ta no kami, kami della risaia: qui rimaneva per l’intera stagione della crescita, così da rafforzare le piante e garantire un raccolto abbondante. Con la raccolta, il kami veniva ringraziato e ricondotto nelle montagne, dove tornava a essere yama no kami. Con la primavera successiva, il ciclo ricominciava (Averbuch, 1995; Blacker, 1975; Grapard, 1982; Hori, 1968).

Esiste poi un’ultima categoria2, connessa all’immagine della montagna come luogo delle anime dei morti. La più famosa di queste vette è certamente l’Osorezan, considerato appunto luogo appartenente a un altro mondo, e connesso a diversi culti sciamanici dedicati agli spiriti dei defunti.

Ci troviamo qui davanti a due credenze affini ma in certa misura distanti: da un lato, la montagna viene intesa come luogo di incontro tra questo mondo e quello dei morti, che invece si troverebbe in qualche luogo imprecisato al di là delle alture. La seconda interpretazione, forse più radicata, considera invece la montagna come effettiva dimora dei defunti. Nonostante la loro vicinanza e potenziale accessibilità, questi monti rappresentano una completa alterità, un luogo altro da cui giungono come ospiti (o come minacce) dèi e antenati. Per questa ragione, incamminarsi in montagna era vietato: all’infuori di sciamane, shugenja, e altri hijiri, a nessuno era permesso l’accesso a questi luoghi, sacri e pericolosi insieme, fuori dalla portata del semplice essere umano.

Come ci insegnano molti studi (Raveri 2006), e come riconosciamo ancora nella pratica quotidiana, la relazione tra la montagna e il mondo dei morti è ancora evidente in una delle feste più popolari della tradizione buddhista giapponese, il bon, che ha luogo in luglio e agosto. Vera e propria festa dei morti, in questi giorni la comunità dei vivi si prepara per accogliere di nuovo in famiglia gli spiriti dei propri antenati, che ritornano brevemente a visitare i propri parenti. In alcune località vengono accesi dei grandi bon-bi, i fuochi del bon, sulla cima di montagne o colline, per dare il benvenuto agli spiriti degli antenati. Altre tradizioni sono il bon-michi-mukae (“aprire la strada del bon”) in cui vengono strappate le erbacce in cima alle montagne in modo da creare un percorso netto per gli spiriti, e il bon-bana-mukae (“raccogliere i fiori per la festa del bon”), in cui dalle montagne vengono raccolti alcuni specie di fiori (come la campanula, il quadrifoglio o particolari varietà di gigli), chiamati fiori del bon; si ritiene che lo spirito dell’antenato entri in questi fiori per visitare la sua antica dimora (Raveri, 2006).

La credenza che collega i monti all’immaginario dei defunti e alla venerazione dei propri antenati sembra marcare ulteriormente la transazione tra villaggio (natura culturale e “addomesticata”) e montagna (“natura selvaggia”): la coltivazione del riso è tradizionalmente concepita come impresa familiare, e il destino delle famiglie è ampiamente determinato di anno in anno dal successo del raccolto. Gli spiriti dei defunti mantengono quindi un interesse nella famiglia e nelle sue fortune anche dopo la morte. La montagna è a distanza sufficiente da poter essere il luogo dell’Altro (la morte) ma non così distante da creare una cesura netta: i defunti quindi possono continuare a interagire con gli affari dei vivi attraverso visite annuali, preghiere commemorative e specifiche invocazioni.

Terra di mezzo

Anche dove le distinzioni sono più nette, a ben guardare, si può scorgere una zona grigia. Una zona di passaggio e transizione. E tra risaia e montagne esistono un territorio che sembra serbare la memoria di un periodo precedente a questa netta demarcazione; è un luogo di confine in cui la presenza umana si fa più rarefatta e si mescola al selvaggio, dimenticando ogni separazione troppo marcata. Questa zona prende il nome (non troppo originale) di satoyama, e si colloca in quelle zone elevate e ricche di vegetazione ai margini dei campi, a metà tra il coltivato e il selvatico. L’ambiguità è la marca di questo luogo, e rispecchia il tipo di attività che vi si pratica; qui infatti prevalgono colture ancora legate al “taglia e brucia” e alle tecniche degli antichi abitanti delle montagne (tè, patate, banane). Questo tipo di coltivazione, una volta molto diffusa, produce una configurazione particolare di natura e società: il territorio è coltivato senza la pervasività e l’organizzazione tipiche della risaia, e rimane quindi parzialmente selvatico. Anche il rapporto tra essere umano e natura è quindi in bilico tra una possibilità di controllo sull’elemento naturale, e al contrario una condizione di dipendenza dell’essere umano dalla natura. Precarietà e ambivalenza sono le parole chiave, in una dimensione dove l’azione umana non può mai essere eccessivamente dominante o strutturante. Questa ambiguità, attribuita anche alle comunità che abitano questa dimensione, contribuisce a rafforzare l’immagine del satoyama come spazio ambivalente. È il luogo per eccellenza della metamorfosi e della trasformazione, popolato da creature in bilico tra due mondi: è il regno pericoloso degli yōkai, dei bakemono e di tutti gli spiriti ingannatori, ma anche dei morti inquieti che non riescono a trovare pace. E' lo spazio di chi fuoriesce dai confini e dalle definizioni; il luogo di chi vive in maniera differente rispetto alla norma sociale, il regno degli sciamani e dei fuorilegge, in ultima istanza di chi davvero pienamente umano non è.

Aggiungo ancora una considerazione che rende questo luogo diverso dalla montagna: se infatti da un lato yama è indubbiamente la terra dei defunti, essa è prevalentemente la dimora degli antenati, di coloro che sono ormai affini agli ujigami (divinità tutelari degli antichi clan dell’arcipelago). Si tratta quindi di una dimensione completamente altra – certo potente e pericolosa per l’essere umano – ma che non causa confusione e che non sfuma i confini. Il satoyama al contrario è la terra dei morti pericolosi: è qui che si incontrano prevalentemente i muenbotoke – vale a dire i morti senza legami, che non hanno continuato la famiglia – spiriti che vagano in solitudine incapaci di accettare la loro nuova condizione. Ed è spesso anche nel satoyama che si possono incontrare alcuni spiriti vendicativi (che nella tradizione vengono chiamati onryo o goryo), tutte quelle anime che hanno subito una morte violenta, di cui per certi versi si sente l’ingiustizia, e che quindi faticano a separarsi da questa vita. Certamente, entrambe le figure sono rappresentate ampiamente nel folklore anche in altri contesti (come ad esempio nell’ambito delle città e delle nuove metropoli) ma il satoyama è simbolicamente il luogo di mezzo, la terra di confine in cui vita e morte si mischiano e si confondono mettendo in pericolo le strutture sociali.

Prospettive di potere

Guardando al confronto tra risaia e montagna, affiorano davanti ai nostri occhi due modelli di sussistenza differenti che si relazionano diversamente nei confronti dell’ambiente circostante. Da un lato si delineano i cacciatori-raccoglitori (che qui vivono nelle montagne), la cui sopravvivenza dipende da un ampio spettro di specie animali e vegetali, da strumenti e indumenti semplici, e da una ridotta alterazione dell'ambiente; dall’altro lato emergono invece i coltivatori (risicoltori), che propagano quelle poche specie (animali o vegetali) in grado di garantire meglio una sopravvivenza più duratura; i loro strumenti diventano più sofisticati, mentre le abitazioni si fanno solide e strutturate, alterano permanentemente lo spazio circostante.

Non lasciamoci ingannare, però, perché non si tratta unicamente di un divario tecnologico e strumentale: stiamo guardando a due modalità radicalmente diverse di strutturare il territorio e di percepire l’ambiente naturale (Blackburn, Anderson, 1993, Bird-David, 1990).

Seguendo le suggestioni dell’etnologa tedesca Nelly Naumann, guardiamo ancora un attimo a yama no kami e alle diverse interpretazioni di questa divinità. A differenza di quanto ci raccontano le credenze legate alla risaia, per cacciatori e boscaioli yama no kami ha tutto un altro carattere: era infatti una sorta di spirito naturale che abitava la montagna per tutto l'anno, custode della foresta e degli animali che la abitavano, e quindi trattato con particolare deferenza. I cacciatori si premuravano di ringraziare il kami dopo l'uccisione di un animale, magari offrendogli il cuore o il fegato come espressione di gratitudine; i boscaioli chiedevano il permesso al kami prima di tagliare un tronco, e successivamente eseguivano un rituale che fungeva da buon auspicio per la rigenerazione dell'albero. E mentre chi guardava dalle pianure tendeva a interpretare yama no kami (e ta no kami) come un essere prettamente maschile, gli abitanti delle montagne percepivano questa entità divina come femminile. Poiché infatti in questo immaginario yama no kami controllava la proliferazione di piante e animali, essa rappresentava lo spirito creativo della generazione e della fecondità, ed era anche intesa come facilitatrice del parto, invocata dalle donne durante il travaglio per proteggere la donna e il nascituro. Solo in seguito alla crescente differenziazione sociale e alla conseguente aumento del potere militare ed economico, la prospettiva della risaia si è affermata come lo sguardo dominante, come “immaginario collettivo”: una prospettiva di ordine e di specifiche demarcazioni spaziali, dove la dimensione umana e quella soprannaturale sono affiancate ma sufficientemente distinte (Naumann, 1963, 1985, 2000).

La montagna rappresenta una modalità di sopravvivenza non più condivisa, un'organizzazione della vita e delle relazioni con il mondo in cui la nascente classe dominante non si riconosce più. Questo non significa che, di conseguenza, quei particolari stili di vita abbiano cessato di esistere: vuol dire però che ad essi vennero associati valori diversi, contro-valori o non valori. Le popolazioni delle montagne diventano quindi “meno umani” o “quasi umani”, figure di confine che sempre meno hanno punti di contatto con la nuova società giapponese, mentre le loro pratiche vengono rielaborate e riadattate alla nuova prospettiva visuale.

Conclusioni

Ancora oggi le montagne giapponesi: luoghi soprannaturali, mete favorite per il raffinamento delle tecniche ascetiche o dimora dei defunti, questi luoghi hanno instaurato un rapporto complesso con il resto del territorio. Se anche gli studiosi hanno per lungo tempo considerato culturalmente dominante la risicoltura e le sue interpretazioni dello spazio e del tempo, Naumann e altri dopo di lei ci hanno aiutato a riconsiderare le assunzioni passate sull'ubiquità della coltivazione del riso e sul tipo di prospettiva che questa imponeva sull’ambiente naturale. Questo non per sovvertire le assunzioni precedenti circa il valore della montagna e la sua collocazione nell’immaginario religioso, ma per dar conto di altre prospettive, di altre interpretazioni e di altri vissuti che – in quanto simboli di una visione di minoranza – rischiano di andare perduti o taciuti.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che, anche se non abbiamo avuto qui il tempo di raccontarlo, i culti delle montagne e le loro pratiche religiose hanno a lungo interagito con dinamiche culturali e di genere che hanno rafforzato l’esclusione di diverse categorie di popolazione. Tra tutte, le donne: il nyonin kinsei il divieto per le donne (esseri impuri per Buddhismo e Shinto) di entrare nelle montagne, è stato abolito solo nel 1872 e i suoi effetti perdurano ancora oggi.

Nel Giappone contemporaneo, persiste con forza la percezione di sacralità della montagna: con la riscoperta di diverse pratiche ascetiche, molte alture sono meta di pellegrinaggio e di addestramento anche da parte di laici che cercano contatto con il sacro nel fine settimana, e in generale da un ampio ventaglio di tradizioni religiose più o meno antiche. Sebbene dalla fine della guerra le montagne giapponesi si siano aperte parzialmente ad un rapporto più “turistico”, questa relazione più profana non ha minimamente intaccato la percezione sottostante di addentrarsi in un territorio sacro. Nonostante la varietà di relazioni che le singole comunità giapponesi intrattengono con le loro montagne, le dinamiche di fondo permangono, svelando le trasformazioni culturali dei secoli passati e raccontandoci di antichi sguardi e nuovi centri di potere. Tra kami, Buddha e antenati questi luoghi rappresentano uno spiraglio sulla relazioni tra uomo, natura e potere, e sulla dimensione sacra che, per quanto distante, è sempre a portata di mano, nella montagna accanto.


Note

1. La datazione classica vede il periodo Jōmon estendersi dal 14.000 al 300 a.C., ma recenti analisi e nuove evidenze hanno portato a spostare questa data. ↩︎

2. Esiste ancora una categoria, kannabi, che identifica il luogo in cui risiede un kami, spesso una foresta o (appunto) una montagna sacra. La parola kannabi non è un termine di uso comune e sembra avere origine da un termine più antico che significa “la dimora del divino”. ↩︎