Dalla necessità alla bellezza
Un’indagine su “Mottainai” (seconda parte)
Scritto da www.rossellamarangoni.it - Una lampada il cui paralume è fatto con carta washi riutilizzata più volte e già scritta, uno shōji riparato con ritagli di carta a forma di fiore, oggetti trasportati con un quadrato di stoffa capace di sostituire qualsiasi borsa, il furoshiki, il manto di un abate o la veste di un monaco fatta di pezzi di tessuto cuciti insieme: cos’hanno in comune? All’origine di questi manufatti c’è il riutilizzo, l’assenza di sprechi, in una parola: mottainai.
Se nella prima parte di questa “indagine” attorno al concetto di mottainai mi ero soffermata sui presupposti di carattere spirituale della parsimonia in Giappone, ora vorrei concentrarmi su quelle che chiamo volentieri le radici pragmatiche di mottainai.
E dove individuarle se non nella vita dura e difficile delle comunità contadine nelle campagne giapponesi? Là, dove il clima aspro di inverni rigidi, le annate di carestia e l’esosa tassazione, imposta dai daimyō in periodo Tokugawa e dai proprietari terrieri nel Giappone Meiji e fino a tutta la prima metà del XX secolo, riduceva le popolazioni dei villaggi rurali alla miseria più cupa.
Fare con quello che si ha, fare con quello che è a portata di mano e in abbondanza, non sprecare le risorse, utilizzare fino all’ultimo gli oggetti e gli strumenti: in ogni civiltà contadina, sotto tutte le latitudini, questa filosofia della parsimonia nasce dalla necessità. La necessità di utilizzare le materie prime a portata di mano, di rendersi autosufficienti nella produzione di utensili, di strumenti di uso comune, essendo nell’impossibilità di acquistarli. Questo stato caratterizzò la vita nelle campagne sino all’avvento dell’industrializzazione, con la diffusione di oggetti prodotti in serie nelle fabbriche, a basso costo e venduti a prezzi accessibili a tutti (o quasi).
Le materie prime che il territorio forniva in abbondanza - la paglia di riso, il bambù, la canapa, il legno, la corteccia degli alberi - erano lavorate nelle case dei villaggi, nel poco tempo libero sottratto al lavoro nei campi e nelle risaie, dai membri di ogni famiglia, per produrre gli oggetti che sarebbero serviti nel corso dell’anno e, se vi erano eccedenze nella produzione, queste potevano essere fatte oggetto di scambio o di vendita all’interno del villaggio stesso o presso le comunità vicine.
Si prenda ad esempio la paglia di riso. Come sappiamo la risicoltura si diffuse in Giappone a partire dal X secolo a.C., stando alle evidenze archeologiche in siti del tardo Jōmon. La coltura del riso permise la disponibilità di un materiale fra i più versatili e utili: il wara, la paglia di riso, appunto, risorsa ora praticamente dimenticata ma quanto mai preziosa per un nucleo familiare contadino fino alla metà del secolo scorso. Lavorata attorno all’irori, il focolare al centro della casa, durante i lunghi mesi invernali, soprattutto nelle regioni orientali dell’arcipelago, Tōhoku e Hokkaidō, il paese delle nevi, la paglia di riso permetteva a una famiglia di sopperire al fabbisogno annuale di tutta una serie di oggetti.
È infatti stato calcolato che in un anno una famiglia media di 5 persone che in più possedesse un cavallo consumava 200 paia di sandali (waraji), 30 stuoie (mushiro), 30 corde resistenti da lavoro, 15 mila corde per usi domestici, sei mila corde sottili, 200 set per coprire gli zoccoli del cavallo e 100 sacchi-contenitore per il riso, oltre a tutta una serie di oggetti svariati che andavano dal rivestimento per la pentola del riso al mantello da pioggia, agli stivali per la neve.
Neppure la più piccola bracciata di paglia andava sprecata e ciò a causa di un sapere antico di secoli e di una profonda conoscenza delle potenzialità della fibra. Manufatti rinvenuti nei siti archeologici permettono di affermare che già nel Giappone arcaico la paglia di riso veniva utilizzata per fabbricare i sandali chiamati waraji secondo una foggia che sarebbe sopravvissuta nei secoli.
Nel corso della storia giapponese molti altri oggetti furono ideati dal mondo rurale per rispondere alle necessità della vita quotidiana, con una varietà di forme e preoccupazioni di carattere decorativo insospettabili. Una produzione, questa, che, come altre, fu prospera e proseguì fino al secondo dopoguerra quando l’avvento della plastica, con la riproducibilità tecnica a basso costo di oggetti d’uso comune, andò con questi a sostituire nelle case manufatti progettati e realizzati con cura da mani anonime secondo una tradizione secolare e, di fatto, trasformandoli in oggetti unici e preziosi ricercati da collezionisti sempre più numerosi.
Così avvenne per i manufatti in bambù, materiale sulla cui versatilità e gli innumerevoli usi nel mondo asiatico sono stati scritti molti studi. Ovunque a portata di mano, in Giappone, era ed è trasformato in contenitore, materiale da costruzione, supporto, strumento, vaso da fiori, e si potrebbe continuare, visto che se ne sono individuati 1400 utilizzi diversi. Il bambù brunito di cesti, scatole e vasi, accuratamente lavorato da anonimi artigiani in una lontana regione del Giappone, è ora protagonista nelle vetrine delle gallerie d’arte di Parigi o di Londra.
Uso e, dopo, riuso. Così ogni materiale veniva recuperato e sfruttato fino alla fine; frammenti di carta, brandelli di stoffa, ritagli, fili: tutto poteva e, soprattutto, doveva essere recuperato, trasformato, ricreato, nella società contadina, e non solo in questa.1
Penso alle innumerevoli declinazioni di fili e tessuti, al sapere manuale delle stoffe, alla loro indispensabile presenza nella vita delle famiglie, e alla loro lavorazione, affidata per lo più, ennesimo fardello, alle mani delle donne, nelle ore sottratte al lavoro in risaia.
Al medico e etnologo dilettante Saga Jun’ichi la signora Tsukamoto Michi del villaggio Sakura presso la cittadina di Tsuchiura (prefettura di Ibaraki) racconta: “Gli abiti da lavoro erano tessuti in casa, e ci si faceva tingere il tessuto dal tintore poi lo si cuciva da sé. Il tessuto aveva talmente tanto valore, un tempo, che lo si ritingeva o lo si rovesciava o, semplicemente, lo si rammendava quando era usurato. E anche i vestiti che erano appartenuti a un morto ce li si spartiva in famiglia, poi erano ritinti e portati di nuovo.”2
Erano le leggi spietate della parsimonia a dettare le condizioni della vita contadina nella situazione di penuria materiale con cui quotidianamente si doveva fare i conti. Ma se la vita era difficile per tutti, il peso maggiore si riversava sulle spalle delle donne, il cui tempo era spartito inesorabilmente fra il lavoro dei campi, il lavoro al telaio, la cura della casa, le gravidanze. Spesso, no, quasi sempre, il tutto condotto sotto la tirannia di una suocera dispotica e astiosa. “La suocera aveva molte borse fatte di stracci. Adoperava queste borse per conservare fili, anche se erano lunghi solo un pollice, pezzi di filo che erano caduto sotto il telaio a mano, filaccia che si era accumulata…. Metteva da parte qualsiasi cosa assomigliasse a un pezzo di filo o a cotone. Li avrebbe venduti a straccivendoli per uno o due sen, o avrebbe trovato il modo di usarli. Diceva alle proprie figlie e alla giovane nuora: «Noi contadini poveri e senza terra, a meno che noi donne non siamo frugali, non potremo mai avere alcun bene di proprietà. Se non seguite il mio esempio, non sarete capaci di mandare avanti la vostra casa.»3
Nella regione di Aomori, là dove le condizioni climatiche difficili impedivano la coltivazione del cotone, procurarselo era, se non impossibile, arduo e molto costoso. Ai contadini, del resto, nel periodo Edo fu proibito di indossare capi in seta, destinata solo alle classi sociali elevate da apposite leggi. Le comunità utilizzavano così, come materia prima per l’abbigliamento, la canapa e con i gomitoli di filo di cotone che riuscivano a procurarsi, rafforzavano le cuciture delle imbottiture che, accrescendone la proprietà di conservazione del calore del corpo, avrebbero permesso di ripararsi dal gelo dei lunghi inverni nevosi. È da qui che proviene il koginzashi stile di ricamo anticamente trasmesso all’interno delle famiglie di madre in figlia e ritenuto un’abilità molto apprezzata da portare in dote. Deriva la sua denominazione da kogin, che nel dialetto locale di Aomori indica le vesti rurali, e sashi, “spina”, con riferimento a “sashiko” (ricamo a piccole spine, ossia punti).
Il cotone, dicevo, era in effetti merce rara e preziosa per gli abitanti dei villaggi nel nord-est del Giappone. Veniva coltivato nei climi caldi delle regioni sud-occidentali e quindi a coloro che vivevano nelle campagne del Tōhoku risultava economicamente proibitivo procurarsene. Quello che si riusciva a fare, a volte, era acquistare degli indumenti usati in cotone e riciclarli per mezzo di tecniche antiche di cucito e ricamo, per poterli poi riusare per successive generazioni all’interno delle famiglie. Oltre alla tecnica koginsashi, tipica dell’area di Tsuruga e Aomori e a quella hishizashi, ricamo rafforzativo tipico della regione di Nanbu eseguito esclusivamente su un modello a forma di diamante in una vasta gamma di variazioni, si utilizzava, nell’area di Yamagata, il ricamo shōnai sashiko. A differenza della tecnica kogin, sviluppata come un metodo per utilizzare filo spesso per chiudere gli spazi vuoti nella canapa a trama grossolana, unico tipo di tessuto disponibile, il sashiko è nato dalla necessità di cucire insieme strati sovrapposti di diversi tessuti usati, e di ricucirli per tenerli in posizione per mezzo di piccoli punti ripetuti. Il sashiko permetteva inoltre di abbellire gli indumenti, ricavati da vecchi capi scartati provenienti dalle ricche Kyōto e Ōsaka, attraverso motivi decorativi geometrici derivati dalla stilizzazione di temi di buon auspicio ispirati alla natura, alle stagioni o ad antiche leggende.
Un’altra tecnica contadina di riuso di vecchi stracci e a cui oggi si guarda nell’ottica di mottainai è quella del sakiori (da saku, “separare” e oru “tessere”), tipica anch’essa della regione storica settentrionale di Nanba (Aomori) e caratterizzata dalla tessitura a telaio di coloratissime striscioline di tessuto ricavate da stracci e ridotte a filacce, una tecnica che permetteva di riutilizzare a volontà il materiale ricavato da capi di abbigliamento scartati perché ridotti all’estremo dell’usura e a cui si dava una seconda vita con la creazione di coloratissime coperte per kotatsu, il braciere elettrico attorno a cui le famiglia si riunivano d’inverno, tappeti, borse, grembiuli. Nata alcuni secoli fa nelle case dei contadini del Giappone nord-orientale, abbandonata nei decenni del boom economico e poi riscoperta e ripresa alla metà degli anni Settanta, quando venne fondata la Nanbu Sakiori Preservation Society, la lavorazione sakiori era ed è caratterizzata da accostamenti cromatici violenti e luminosi, quasi a voler illuminare gli ambienti di legno scurito dal tempo e dal fumo delle antiche cucine buie e gelide, dal soffitto altissimo, tipiche delle magariya, le case rurali tradizionali della regione. Il colore rosso, in questa lavorazione, aveva un ruolo preminente: colore apotropaico per eccellenza, veniva utilizzato per le bordure dei copri-kotatsu, allo scopo di tenere lontane dalla casa le calamità e, soprattutto, i temutissimi incendi. Nato dalla necessità e dal riciclo, il mondo colorato del sakiori ispirò a Kurosawa Akira la tavolozza di colori per i costumi del “Villaggio dei mulini”, uno degli episodi di Sogni (1990), in cui duecento comparse indossarono vesti realizzate dai telai di Nanbu con questa antica tecnica tradizionale.
Mottainai, l’antico monito a non sprecare del vecchio Giappone, riscoperto e rivalutato a livello mondiale dalla biologa e attivista keniota Wangari Maathai (1940-2011), premio Nobel per la Pace 2004, ha avuto un ruolo importante nel mondo rurale giapponese dei secoli scorsi e dopo essere stato ripreso e ricaricato di significato in seguito alla tragedia dello tsunami del 2011, con un invito a una presa di coscienza responsabile - nell’uso/riuso dei detriti, nella ricostruzione, nell’abbandono di politiche di consumo dissennate - può rappresentare ancora una volta, in questi nostri giorni confusi e incerti, un invito saggio e prezioso a rivedere le nostre priorità, i nostri consumi, le nostre vite. Penso alla raccolta di frammenti (circa centomila),4 a volte minuscoli, a volte aggrovigliati, di stoffe risalenti al periodo Asuka e Nara (VII e VIII sec.) e custodite nel deposito imperiale dello Shōsōin, presso il Tōdaiji di Nara.
Piccoli preziosi tesori, alcuni non più grandi di un francobollo, da proteggere e da tramandare alle future generazioni: alcuni di questi frammenti già nell’VIII sec. furono montati su paraventi, in creazioni di grande bellezza. Ancora utili, almeno per lo spirito. Un esempio di mottainai da non dimenticare.
(fine della seconda parte)
Note
1. Si sa per esempio che anche in ambito urbano, durante il periodo Edo, venditori di brandelli di stoffa giravano con il loro carico di merce multicolore appeso a un bilanciere per le strade affollate della capitale shogunale, segno che nella stessa Edo il popolino riutilizzava gli scarti preziosi ricavati da vecchi kimono. Uno di questi venditori è ritratto nel Kidai shōran, emakimono datato 1805 e conservato al Museo di Arte Orientale di Berlino, testimonianza unica e preziosa della vita quotidiana nel quartiere di Nihonbashi della capitale. ↩︎
2. Riportato in Saga Jun’ichi, Mémoires de paille et de soie, Arles, Philippe Picquier, 1996 (1a ed. 1992), p. 274. L’edizione in lingua inglese, curata dall’autore stesso, era stata pubblicata da Kodansha International nel 1987 con il titolo Memoirs of Silk and Straw.↩︎
3. Si veda Mikiso Hane, Peasants, Rebels, Women and Outcasts. The Underside of Modern Japan, Rawman & Littlefield, Lamhan (Maryland), 2016 (1st ed 1982), pp. 88-89.↩︎
4. Come riferito da Yamashina Reiji nel suo inventario online degli oggetti conservati allo Shōsōin: http://reijiyamashina.sakura.ne.jp/shosoin/shosoin.html -- ↩︎
Bibliografia
Shōsōin: Essential Treasures of Ancient Japan Passed Down by the Imperial Family, Tokyo, Tokyo National Museum/Yomiuri Shinbun/NHK, 2019 (catalogo della mostra al TNM, 14 ottobre-24 novembre 2019, Heiseikan, Tokyo National Museum).
Dominique Buisson, L’esprit du bambou, Arles, Philippe Picquier, 2004.
Ozawa Hiromu, Kobayashi Tadashi, The Kidai Shōran Scroll, Tokyo, Japan Library, 2020.
Saga Jun’ichi, Memoirs of Silk and Straw, Tokyo, Kodansha International, 1987.
Yoshioka Sachio, Yanagi Junko. “Beauty in frugality. Harmonious paths to the fullest use” in KIE, vol. 28, Autumn/Winter 2011, pp. 34-37.