Battiti del cuore, nel cuore della notte. Il matsuri di Hida Furukawa
-A Yuka e Hirokazu Kawai
A mano a mano che il treno si addentrava nella valle, seguendo il corso impetuoso del fiume, la primavera lasciava il posto all’inverno.
Gli alberi in piena fioritura lasciavano il posto a un paesaggio spoglio, ancora addormentato di un sonno invernale, e l’aria tiepida di Nagoya cedeva dinanzi a un vento frizzante che, calata la notte, sarebbe diventato sempre più gelido.
Perché quest’anno, a Hida Furukawa, la primavera tardava ad arrivare e quest’anno noi, a Hida Furukawa, tornavamo dopo più di dieci anni per assistere, per la prima volta, a un matsuri per noi sconosciuto, sconosciuto e segreto, un matsuri in cui il grande tamburo “risveglia” la città, proclamando con il suo battito profondo, nella notte, che l’inverno è finito, che è - finalmente - tempo di rinascita.
Hida Furukawa è una piccola città della prefettura di Gifu, nell’antica provincia di Hida (Hida no kuni), nel cuore delle Alpi Giapponesi. Uno scenario rurale di case disseminate fra le risaie e i campi, un centro piccolo e antico, sulla confluenza di due fiumi, il Miyagawa e l’Arakigawa e, sullo sfondo, le cime innevate e i boschi.
Da qui, durante il periodo Nara, partivano i carpentieri celebri per la loro maestria e andavano a costruire nella capitale imperiale templi e santuari. Erano chiamati Hida no takumi, maestri di Hida, ammirati per i loro abilissimi incastri ed intagli a forma di nuvola.
L’acqua limpida e pura, in questo territorio così vicino alle montagne, e la produzione di riso di qualità hanno favorito lo sviluppo della produzione di sake, uno dei vanti locali, insieme a una cucina che sa dare il meglio valorizzando verdure, erbe e i frutti di ogni stagione.
Gustiamo qui, finalmente, l’akameshi, il riso rosso della festa, un regalo dei nostri ospiti per questi giorni attesi tutto l’anno.
Sono i giorni del matsuri, uno degli hadakamatsuri (lett. “matsuri nudi” perché prevedono la presenza di una folla di uomini che indossano il solo perizoma) più importanti di tutto il Giappone, riconosciuto a livello nazionale come “Importante proprietà culturale immateriale” e ora, finalmente, inserito dal dicembre 2016, nell’elenco del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco insieme ad altri 32 matsuri rappresentativi delle varie regioni del Giappone. Antico di almeno quattro secoli, anche se la prima testimonianza scritta al riguardo risale al 1776, il matsuri di Hida Furukawa pur essendo ancora poco conosciuto al di fuori del Giappone, è stato ampiamente studiato da storici e antropologi, in particolare da Sonoda Minoru (che è arrivato a scrivere: “I have yet to come across anything that surpasses the okoshi daiko of the Hida Furukawa Festival”) e da Scott Schnell che ne ha dato un’interpretazione inedita e, a mio avviso, molto interessante.
Il 19 e il 20 aprile la città sembra ridestarsi al timido annuncio della primavera, e il risveglio avviene al ritmo del grande tamburo che per il resto dell’anno riposa in un kura nel centro della città. L’okoshi daiko, il tamburo “che risveglia” (ma anche, secondo un’altra possibile traduzione, “che incita alla rivolta”), è simbolo e protagonista potente del matsuri.
Un matsuri, questo di Furukawa, che è caratterizzato da una duplice natura: solenne e quieta nei rituali shintō e vitale e carica di energia nel movimento convulso della folla che si muove al battito del grande tamburo nella notte.
Lenta e ieratica la processione dei sacerdoti con il mikoshi, il palanchino sacro, come calmo e solenne è il movimento dei nove yatai, i grandi carri finemente decorati che, estratti dagli alti yataikura (i magazzini in cui sono custoditi nel corso dell’anno), attraversano le vie della città al suono dei flauti e dei tamburi, accompagnati da un ricco corteo di cittadini splendidamente abbigliati, convulsa e dinamica la processione del grande tamburo, accompagnato da centinaia di uomini che indossano il solo fundoshi (perizoma) nella notte gelida e che urlano, spingono e si muovono caoticamente cercando lo scontro e la prodezza, in una dimensione dionisiaca in cui il sake abbondantemente versato favorisce la prova d’orgoglio, anche se spesso non la garantisce. Si tratta di un’alternanza, quella fra il movimento e la quiete, che caratterizza questo matsuri inteso a celebrare l’arrivo della primavera.
La festa si dipana nell’arco di due giorni intensi di attività rituali che coinvolgono tutta la città: i riti nel santuario shintō Ketawakamiya jinja, la processione sacra con il mikoshi che attraversa la città il primo giorno, sosta per la notte nel centro della città in un dimora temporanea (otabisho) e il mattino dopo ripercorre le strade dei quartieri per poi ritornare all’abituale dimora nel tempio, la parata notturna del grande tamburo con l’assedio dei piccoli tamburi rappresentanti i vari quartieri, il corteo solenne dei grandi carri corredato dalle ripetute rappresentazioni di kodomo kabuki (kabuki dei bambini) e di karakuri ningyō (automi mossi da un complesso sistema di corde).
Al mattino del 19 aprile ci alziamo presto. Dalla finestra un panorama nitido di campi, risaie, orti, colline boscose e montagne innevate. Attraversiamo i sobborghi rurali sparsi fra i campi e le vecchie stradine del quartiere antico in cui si sistemano le grandi lanterne davanti alle botteghe, si spazza davanti alle case e si sparge il sale, elemento purificatore, in previsione del passaggio del palanchino sacro, mentre negli stand colorati eretti nelle vie cittadine già si espongono le merci, si allestiscono i giochi, si preparano e si friggono tutte le delizie dei cibi di strada.
Poi, al limitare della foresta, giunti ai piedi della collina, saliamo la scalinata che conduce al Ketawakamiya jinja, mentre il sole fa capolino fra le nubi e le cime degli alberi. Nel santuario, da una posizione privilegiata sulla veranda del padiglione principale, assisteremo a un lungo rito svolto dai kannushi alla presenza delle figure più rappresentative della comunità.
Questo rito comprende: la lettura di norito, la purificazione dell’assemblea per mezzo di un ramo del sacro sakaki (Cleyera japonica) prima e di un onusa poi, la presentazione lenta e solenne di una lunga sequela di offerte poste su vassoi che giovanissime miko si passano l’un l’altra lungo i gradini che conducono all’altare per poi porgerle al sacerdote, la presentazione, su un apposito tavolo ai piedi della scalinata, dei tamagushi (rami di sakaki decorati con shide di carta bianca) offerti dai capi della comunità, ed infine le danze eseguite dalle giovani miko davanti alla nutrita assemblea di personaggi abbigliati con il cerimoniale kamishimo.
Delle tre fasi in cui è possibile suddividere la festa, questa è quella squisitamente religiosa, quella in cui si richiama ritualmente la presenza del kami tutelare della comunità e lo si trasferisce in un mikoshi che verrà portato in processione attraverso le strade della città, delimitando una geografia di confini, riprendendone in certo senso il possesso e, così facendo, “identificando simbolicamente la comunità come una coesiva unità sociale” come ha scritto Ashkenazi.
Del resto, l’ha già osservato l’antropologo Antonio Marazzi, il significato centrale del matsuri, di ogni matsuri, va individuato nella celebrazione, attraverso l’incontro festoso di uomini e spiriti, dei legami tra la società e le forze cosmiche. La comunità che festeggia riafferma il suo rapporto, fisico ma soprattutto ideologico, con la natura: un rapporto di appropriazione ma anche di dipendenza, da cui deriva un sentimento di riconoscenza. La società riconosce i propri debiti nei confronti della natura e degli spiriti che la governano e al tempo stesso ridefinisce la propria identità. La celebrazione di questi principi fondamentali passa attraverso l’inversione delle regole della vita quotidiana: durante il matsuri non vi è più controllo e misura nell’espressione del corpo e in quelle verbali, piuttosto vi è un’esplosione di vitalità, di forza e movimento, di musica e colori e un comportamento quasi orgiastico. Vi è uno sfogo delle tensioni e delle repressioni socialmente indotte, ma tali energie dirompenti sono incanalate e rigorosamente controllate nei riti, all’interno della precisa dimensione spazio-temporale del matsuri. Dal rinnovamento così originato escono rinsaldati i legami della comunità. Una riaffermazione rituale dell’ordine sociale che è anche, secondo Schnell, una rottura di quell’ordine e un temporaneo allentamento delle restrizioni sociali.
E mentre sacerdoti, miko, autorità in frac, in kimono (l’unica donna) e in kamishimo,
esponenti delle associazioni di quartiere, musicisti, fotografi e reporter della televisioni locali si allontano a gruppi dal recinto templare in mezzo alla foresta, mentre ci si appresta a muovere in corteo recando sulle spalle il palanchino sacro che scenderà a visitare la città, noi inseguiamo i gruppi di danzatori che percorrono le strade e sostano davanti alle botteghe e ai magazzini per eseguire, al suono dei flauti e dei tamburi, a due a due, la benaugurante shishimai, la danza del leone, affinché favorisca il benessere e la prosperità di famiglia e commercio, ottenendone in cambio un’offerta che aiuterà a coprire le spese affrontate per la festa dalle diverse associazione di di vicinato.
Ci ritroveremo spesso davanti, in questi due giorni di festa, la familiare tenuta verde e rossa con disegni di nuvole cinesi dei giovani danzatori, energici e giocosi, le cui grosse maschere non mancheranno di minacciare bonariamente le ragazze del pubblico che si raggruppa per ammirarli: un comportamento scherzoso che sottolinea il clima gioioso della festa.
Nel pomeriggio si aprono i kura e si espongono gli alti yatai, i carri, capolavori di intaglio dei maestri artigiani della città, che profondamente influenzati dallo stile di Edo, via via acquisirono elementi tipici dei carri di Kyōto, come le karakuri ningyō, e si arricchirono di bassorilievi, lacche, elementi decorativi preziosi, diventando motivo di orgoglio per il quartiere di appartenenza.
Ogni carro ha una foggia diversa, ha un propria storia e un proprio tema ma tutti, con il loro carico di hayashi (piccola orchestra di flauti e tamburi), di automi e di marionettisti per muoverli, saranno protagonisti della grande parata del giorno dopo, trascinati e accompagnati da personaggi nei costumi tradizionali. Per ora, mentre nel pomeriggio che avanza la pioggia inizia a cadere e l’aria gelida ci sferza il volto, sostiamo davanti a ogni kura e ammiriamo, accompagnati dai discorsi delle autorità e dalla curiosità del pubblico che affolla le strade, la bellezza straordinaria di queste opere che torreggiano imponenti eppure leggiadre, raccontando nei loro decori leggende e miti.
Chiacchieriamo con gli ujiko che stanno sistemando le offerte destinate agli altari dei kami del quartiere: mele, daikon, uova, carote, calamari secchi, mochi, bottiglie di sake. Innumerevoli bottiglie di sake. Poi cala la notte ed è allora che il matsuri di Hida Furukawa entra nella seconda fase, quella che chiamerei dionisiaca, quella che con il favore della notte (gelida) e dell’alcool rappresenta un momento liberatorio e incontrollabile di sovvertimento delle gerarchie, di insubordinazione, di rottura degli schemi imposti di armonia e ritegno a favore dell’opportunità di esprimere visioni alternative e comportamenti sovversivi ammessi dalla temporanea immunità concessa dallo scorrere a fiumi del sake, come ha osservato Scott Schnell. In passato, del resto, questo momento notturno della festa diede l’occasione per la popolazione di esprimere - anche in maniera aggressiva, anche con azioni violente - il proprio dissenso, assaltando ripetutamente, ad esempio, la locale sede della polizia durante il periodo Meiji e l’epoca del militarismo.
Cos’è la notte se non il regno dell’okoshi daiko, il grande tamburo che “risveglia”, che richiama la comunità a celebrare l’arrivo della primavera e a celebrare se stessa? Il grande tamburo, che per tutto l’anno resta chiuso nel suo magazzino-tempio nel centro della città, essendo oggetto sacro e venerato, è ora esposto su una elevata piattaforma nel centro della piazza, la folla attorno a noi si pressa per assistere ai riti di purificazione celebrati dai kannushi e, poi, alla convocazione dei due giovani prescelti che, stanotte, lo suoneranno, colpendolo alternativamente stando seduti su di esso, schiena contro schiena, indossando solo il fundoshi ed essendo legati uno all’altro da una lunga striscia di stoffa bianca.
Altri otto uomini, sempre in perizoma, stando ritti in precario equilibrio sulle travi dell’alto carro che porta il taiko sacro in giro per le vie della città, dovranno difenderlo a ogni costo, brandendo lanterne di carta e incitando i circa cento portatori che spingono la pesante struttura (ormai appoggiata su ruote ma, anticamente, recata sulle spalle da centinaia di uomini), dagli attacchi che decine di uomini dei vari quartieri, anch’essi in bianco fundoshi, porteranno all’okoshi daiko, rappresentante invece del potere costituito, dell’autorità, cercando di farlo cedere sotto gli urti e le spinte della massa. Gli attaccanti sono armati di pali lunghi 3 metri e mezzo circa, su ognuno dei quali è legato un piccolo tamburo, lo tsukedaiko ossia il tamburo “che attacca”. Contrassegnati dal simbolo del quartiere di appartenenza, gli tsukedaiko, ben visibili nella calca, sono le insegne identitarie che avanzeranno all’assalto in questa battaglia notturna ormai solo simbolica.
Prima che si metta in moto questo straordinario insieme di uomini seminudi e di pubblico agitato e curioso, nella piazza di ergono i pali sostenuti dai gruppi delle associazioni di quartiere (machigumi) e, alternativamente, verranno scalati dai più coraggiosi che, giunti in cima, si lasceranno andare ad acrobazie, salti, bracciate nell’aria fredda della notte, il cielo come un mare scuro e gelido.
Anche dopo che la parata si sarà messa in moto, la scena di prodezze e uomini volanti nel cielo della notte di primavera si ripeterà in luoghi canonici della città, dando così a ognuno la possibilità di esibirsi davanti ai propri amici e vicini. La tensione sale a poco a poco, percorre i capannelli che, ai margini della piazza affollata, si riscaldano davanti a bracieri di fortuna, con l’aiuto di bevande calde, più o meno alcoliche. Poi l’enorme macchina si mette in movimento
e allora le piccole strade, improvvisamente, sono un pullulare di folla vociante, di urla di incitazioni “wasshoi, wasshoi”, di suoni, di battiti ritmati e solenni del grande tamburo che risuonano nella notte, mentre la torre - del tamburo, dei due battitori, dei portatori - si muove lentamente e, tutt’intorno, brulica e si ammassa la folla nuda e bianca degli assalitori del grande tamburo che, con i loro bastoni posti ormai in orizzontale, spingono con violenza il grande carro da ogni lato.
Davanti e dietro la massa degli opponenti avanzano gruppi di cittadini che recano chochin accese, come sono accese le grandi lanterne davanti alle case e, ovunque la gente osserva, partecipa, ride, incita, beve, urla. Dai terrazzini dei ristoranti, dalle finestre, addirittura dai tetti dei ryōkan, delle case (noi stessi ci ritroviamo improvvisamente su per una ripida scala e poi in bilico su una veranda affollata su un tetto), c’è chi si sporge, chi fotografa, chi richiama l’attenzione di un figlio o di un amico, chi beve alla salute delle prodezze che, agli angoli di alcune strade, alcuni coraggiosi compiono scalando di nuovo i loro pali, incuranti del freddo, delle mani e dei piedi scivolosi, ormai forse ebbri.
È la manifestazione del Furukawa yansha, lo spirito caparbio, indomito e ribelle che è l’orgoglio degli abitanti di questa regione isolata fra le montagne. Imbrigliato nel corso dell’anno, ma serpeggiante sotto la calma superficie, lo yansha riemerge prepotente nella notte del matsuri, la notte liberatrice.
È tutto un concitare, un correre per anticipare il corteo o per raggiungerlo, e intanto i piedi si intorpidiscono nel gelo e allora ci si muove da un angolo all’altro, fendendo la folla, temendo di smarrire l’orientamento e di perdere forse l’attimo fuggevole in cui, sotto ai vostri occhi, avviene il passaggio del tamburo sacro, il cui suono rimbomba per le piccole strade e sembra zittire tutti, nel buio rischiarato solo dalle lanterne di carta.
Ma è solo un’impressione. Il vociare sale e scende come una marea e voi in quella marea non temete di essere travolti. Siete improvvisamente parte della festa. Parte di un tutto.
Il mattino dopo è la quiete. Spente le voci irriverenti e spavalde degli eroi notturni, inizia la terza fase del matsuri. Quella di una calma bellezza.
È uscito il sole, tiepido, che rivela d’improvviso i fiori in boccio. Allora sì, il grande tamburo, che ora riposa, dio stanco, nel suo trono in mezzo alla piazza del matsuri, ha davvero aperto simbolicamente le porte alla nuova stagione. E i fiori sono comparsi.
Quando arriviamo sul grande piazzale i carri splendidi sono parcheggiati, accuditi da personaggi nei costumi antichi, rivelando la ricchezza dei decori, degli intagli, dei bassorilievi, dei dipinti a inchiostro con dragoni e nuvole e kirin e leoni cinesi.
È una profusione di legni, ottoni, stoffe, cordoni legati nei nodi di buon augurio. Un’epifania di bellezza. Ogni carro racconta una storia e alcuni carri quella storia la presenteranno al pubblico nella mattina di sole attraverso la magia delle arti performative folcloriche che sono una delle caratteristiche più affascinanti di alcuni matsuri. Qui a Hida ammireremo il kabuki dei bambini e le danze delle karakuri ningyō. Nell’attesa delle esibizioni sui carri, ad attirare la nostra attenzione è ciò che avviene nel recinto sacro che racchiude il piccolo padiglione in cui il mikoshi è rimasto custodito per tutta la notte: ha visitato la comunità percorrendone le strade, ha pernottato nel centro della città, da dove potevano giungergli il battito potente del grande tamburo e i suoni e le voci della festa e ora si appresta ad essere riaccompagnato alla sua dimora abituale nel santuario. Davanti al padiglione si alternano giovani suonatori che percuotono i diversi tamburi cerimoniali, le danze delle miko, e i riti di benedizioni dei kannushi più anziani, abbigliati negli sfarzosi kariginu in seta color porpora, derivati dal costume degli aristocratici di periodo Heian.
D’improvviso l’attenzione si volge dall’altra parte della piazza: sul carro chiamato Seiryū (o del Dragone azzurro) prende a muoversi Fukuroku, il dio della fortuna dalla oblunga testa calva e dalla lunga barba bianca. Mossa da 25 corde tirate da un gruppo di marionettisti, questa karakuri ningyō declama i versi di un dramma nō muovendosi nelle varie direzioni: sulla sua testa si arrampica un ridente karako (bambino cinese) dispettoso, mentre la tartaruga (anch’essa una karakuri ningyō) che tiene appoggiata sulla mano si trasforma improvvisamente in una splendida gru dalle ali spiegate, rappresentazione dell’associazione simbolica di miglior auspicio, la tsurugame (lett. “gru-tartaruga”), apportatrice di longevità e buona fortuna.
Ci voltiamo verso un altro yatai, decorato in lacca vermiglia e nera ma privo di intagli per lasciare più agio al movimento dei piccoli attori, il Byakkotai o “carro della Tigre bianca”, è sormontato dalla scultura di un guerriero in armatura, Minamoto no Yoshitsune. Ed è proprio l’epopea del più amato eroe della storia giapponese che viene rievocata con la rappresentazione della celebre danza Hashibenkei che racconta il primo incontro fra Ushiwakamaru (ossia il giovane Yoshitsune) e il monaco guerriero Benkei che diventerà il suo vassallo più fedele, avvenuto presso il ponte Gōjō, nella capitale imperiale. I due bambini sono molto compresi nella parte e si muovono con la sicurezza di due attori consumati.
Li vedremo finalmente sorridere solo più tardi, durante una sosta del corteo degli yatai, in un momento di pausa, in cui - mentre attorno a loro c’è chi porge loro una bevanda, chi tiene aperto un ombrello per proteggerli, chi gli tampona il trucco - chiacchierano divertiti come inconsapevoli dell’attenzione che li circonda, finalmente bambini.
Si mette in marcia, intanto, la processione che riporterà il mikoshi al Ketawakamiya jinja. Osserviamo dalla riva del fiume il corteo lento e maestoso di sacerdoti, miko, musicisti, tamburi decorati, portantini con grossi rami di sakaki, danzatori di shishimai, membri delle associazioni di quartiere, con stendardi, laterne, flauti, cimbali: una parata di suoni e colori che si staglia contro i rami in boccio dei sakura che ricadono sull’acqua del fiume.
In contemporanea, nelle strade vicine, si sono mossi impercettibilmente i carri, che, dato il peso di circa 2 tonnellate ciascuno, devono essere tirati da gruppi consistenti di uomini pur poggiando su grandi ruote. Il periplo previsto è lungo e tortuoso, per poter attraversare ogni strada storica della città e le soste richieste numerose durante le quali gruppi di musicisti suonano flauti e tamburi, ragazzi danzano mentre i portatori si ristorano con uno spuntino.
Ma d’improvviso tornano nubi minacciose di pioggia e si diffonde la notizia che gli yatai rientreranno nei loro kura, che la parata non riprenderà.
Nello scorcio del pomeriggio sempre più grigio resta ancora il tempo per un’ultima cerimonia nel tempio shintō di un quartiere isolato, con il corredo di danze di giovani miko, di musiche di flauti e tamburi. Un’ultima shishimai prima della pioggia, un’ultima passeggiata lungo le rive del fiume, sotto i ciliegi in pieno boccio. A Hida Furukawa la primavera è finalmente arrivata.
Bibliografia
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