Aikidō è amore?
Una ricerca sulle origini spirituali e teoriche alla base dell’Aikidō
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Nonostante tutte le botte che mi sia presa nella mia breve ma intensa attività aikidoistica, ho sempre pensato che qualche fondo di verità potesse esserci, nell’affermazione del mio maestro che mi spronava a continuare.
Non è tuttavia così semplice associare l’idea di amore, fratellanza e armonia universale a un’arte marziale, che per definizione esprime concetti totalmente opposti.
E’ stato così che alla fine dei miei studi di lingua e cultura giapponese, ho potuto approfondire questo aspetto nella tesi di laurea presso l’Università di Torino, avendo modo di ripercorrere le fasi della gestazione dell’aikidō e di esplorare il periodo storico, sociale e politico in cui questa ha avuto luogo.
Conosciamo bene la biografia del fondatore Ueshiba Morihei (植芝盛平, 1883-1969), ma che cosa succedeva in Giappone nel periodo della sua giovinezza, che cosa significa all’interno della cultura giapponese il rispetto per la natura, le pratiche sciamaniche, gli esercizi di purificazione, gli stati di allucinazione...
Nonostante tutte le botte che mi sia presa nella mia breve ma intensa attività aikidoistica, ho sempre pensato che qualche fondo di verità potesse esserci, nell’affermazione del mio maestro che mi spronava a continuare.
Non è tuttavia così semplice associare l’idea di amore, fratellanza e armonia universale a un’arte marziale, che per definizione esprime concetti totalmente opposti.
E’ stato così che alla fine dei miei studi di lingua e cultura giapponese, ho potuto approfondire questo aspetto nella tesi di laurea presso l’Università di Torino, avendo modo di ripercorrere le fasi della gestazione dell’aikidō e di esplorare il periodo storico, sociale e politico in cui questa ha avuto luogo.
Conosciamo bene la biografia del fondatore Ueshiba Morihei (植芝盛平, 1883-1969), ma che cosa succedeva in Giappone nel periodo della sua giovinezza, che cosa significa all’interno della cultura giapponese il rispetto per la natura, le pratiche sciamaniche, gli esercizi di purificazione, gli stati di allucinazione... Che cosa sono le Nuove Religioni che proliferano in questo periodo per contrapporsi a una situazione politica violenta e imperialista. Sono tutti quesiti che ci portano a capire come il giovane Ueshiba abbia potuto trovare nei principi ispiratori dell’Ōmoto, le basi spirituali sulle quali fondare la disciplina che stava creando.
Infatti, a differenza di altre arti marziali giapponesi come jūdō (柔道), karate (空手) e kendō (剣道), che focalizzano l’attenzione sugli aspetti agonistici e sul combattimento, l’aikidō (合気道) si presenta come un’arte marziale che paradossalmente rifiuta l’idea di scontro: nasce e si sviluppa accompagnato da un ricco apparato di contenuti spirituali e dottrinali associati a una precisa visione del mondo che possono renderlo in parte assimilabile a una religione.
Il nucleo centrale dei suoi insegnamenti tecnici consiste di una serie di movimenti di attacco e difesa derivate dagli antichi modelli del budō (武道), ma questi, più che a sopraffare un avversario tendono a stabilire un rapporto di equilibrio armonico tra l’individuo e il mondo nel suo insieme, attraverso la dinamica di energia che si sviluppa nell’atto del confronto fisico, e al complessivo miglioramento di se stessi e della propria consapevolezza.
Secondo la mia tesi, tali caratteristiche derivano direttamente dall’esperienza elaborata dal fondatore dell’aikidō, Ueshiba Morihei (植芝盛平, 1883-1969), che, nel corso degli anni Venti del secolo scorso, opera in stretto contatto con Deguchi Onisaburō (出口王仁三郎, 1873-1948), co-fondatore e attivo promotore di una nuova religione detta Ōmotokyō (大本教), fondata dalla figura carismatica di Deguchi Nao (出口なお, 1837-1918), povera e analfabeta, portatrice di una rivelazione divina.
I principi ispiratori dell’Ōmoto, cioè la ricerca di una armonia universale che permetta all’uomo di vivere in pace e fratellanza con se stesso e tutti i suoi simili, si riversano nella visione di Ueshiba diventando il fondamento spirituale della sua disciplina. Anche alla base dell’aikidō si colloca una rivelazione divina che Ueshiba esperimenta nel 1925 e in seguito a questo episodio la sua figura acquista crescente carisma agli occhi dei seguaci tanto da venir deificato dopo la morte.
Ueshiba è dunque un attivo seguace della nuova religione e annuncia la propria dottrina come frutto di una rivelazione divina, proprio con le stesse modalità che caratterizzano i leader carismatici alla testa delle Nuove Religioni.
Nel primo capitolo si analizza il panorama religioso giapponese tra la fine dell’epoca Tokugawa e l’inizio dell’epoca Meiji (1853-1912). Il periodo storico preso in esame coincide con la data del 1853, che segna l’apertura del Giappone ai commerci con i paesi occidentali dopo secoli d’isolamento, premessa diretta alla definitiva crisi dello shogunato Tokugawa e alla restaurazione Meiji. Esso è caratterizzato da alcuni fenomeni che chiamano in causa gli aspetti religiosi della società. Dopo la fase di eclissi dell’epoca Tokugawa, si assiste alla restaurazione di un potere imperiale forte che basa la propria autorità sulla rifondazione delle origini religiose, che giustificano la discendenza divina dell’imperatore. Lo Shintō diventa, seppur in modo non ufficiale, religione di stato mentre le scuole buddhiste, invece, perdono l’appoggio e la benevolenza dei centri di potere e vengono boicottate in quanto potrebbero indebolire la centralità del potere imperiale e costituire un ostacolo per la politica d’apertura del Paese.
Parallelamente si fanno strada movimenti che tendono al recupero e alla rivalutazione di culti antichi e delle pratiche sciamaniche nelle campagne: si tratta di minoranze critiche rispetto all’ortodossia imperiale, che reagiscono agli squilibri provocati dalla rapida modernizzazione della società. Sono i nuovi gruppi religiosi che esprimono le inevitabili tensioni suscitate dal nuovo ordine politico, le cosiddette shinshūkyō, ossia Nuove Religioni (新宗教) che propongono diverse modalità di adattamento ai cambiamenti socio economici in atto.
Il termine Nuove Religioni, tuttavia, non è del tutto appropriato, poiché ognuno di questi movimenti si costituiva di elementi presi da una o più religioni preesistenti.
Una pluralità di tradizioni religiose caratterizza infatti il contesto religioso e culturale in Giappone fin dalle sue origini. È peculiare della storia della religione giapponese la coesistenza di numerosi culti diversi come lo Shintō, il Buddhismo, il Confucianesimo. Ogni individuo, piuttosto che appartenere esclusivamente a una di queste, è consapevolmente legato a più di una tradizione.
Ad eccezione del Jōdo Shinshū e della tradizione di Nichiren, da cui deriva una delle più potenti fra le Nuove Religioni, la Sōka Gakkai, nessuna delle scuole giapponesi storiche rivendica l’assoluta verità o l’esclusione delle altre scuole.
Per comprendere il fenomeno dell’emergere delle Nuove Religioni, è necessario riconoscere il contesto religioso e sociale del Giappone alla fine del periodo Tokugawa, quando le prime Nuove Religioni cominciano ad affacciarsi sul panorama culturale.
Alla fine del periodo Tokugawa infatti, i moti contadini, che invocano l’urgenza di riforme sociali con forme di protesta spontanee (eejanaika, エエジャナイカ) annunciano già i primi movimenti religiosi a tendenza profetica.
Le Nuove Religioni della prima fase eserciteranno la funzione di rifugio per la popolazione alla quale il nascente capitalismo aveva distrutto i riferimenti tradizionali. Sono le classi sociali più basse di contadini e operai a soffrire della rapida industrializzazione e del nuovo sistema capitalistico e proprio da queste classi provengono molti dei fondatori di Nuove Religioni: sono anch’essi emarginati che possono condividere le privazioni e le sofferenze dei loro seguaci.
Una delle caratteristiche comuni alle prime Nuove Religioni è l’aspetto messianico. Il fondatore, o come spesso accade, la fondatrice, è una figura carismatica, considerata un essere divino o semi-divino, in diretto contatto con la divinità per le verità rivelate che diffonde. Egli promette la soluzione a tutti i problemi attraverso la fede e il culto; pratica riti di esorcismi o profezie.
In risposta a una situazione di crisi (frustrazione individuale o collettiva) ci si rivolge ai miti antichi, per ricercare soluzioni ai temi della salvezza e della speranza. Anche Deguchi Nao, fondatrice dell’Ōmotokyō, a metà del percorso fra il paradiso originale e l’istaurazione di un regno ideale, profetizzerà la distruzione, “la grande pulizia del mondo” (yonaoshi 世直し) necessaria per la realizzazione del regno dei kami .
Nao, sebbene dapprima si considerasse solo come uno strumento passivo, mediatrice del kami “Ushitora no konjin” (長の金神) e permettesse a Onisaburō di manipolare il suo messaggio, fu grazie al suo kamigakari (神懸かり, possessione dello spirito) che acquisì la sicurezza necessaria per esprimere le istanze che il dio le comunicava e per sfidare gli sforzi di Onisaburō volti a mantenere l’ Ōmotokyō entro i confini delle religioni approvate dal governo.
I fondatori delle Nuove Religioni intrattengono un rapporto stretto con le religioni popolari attraverso le pratiche sciamaniche e le credenze legate ai kami viventi o ikigami (生き神) fra cui si identificano i fondatori stessi.
Il primo capitolo approfondisce il concetto di kami, di kamigakari e delle pratiche sciamaniche in uso nelle campagne. Una speciale attenzione viene data alle pratiche di purificazione ed esercizi ascetici: più interessanti ai fini della nostra ricerca sono quelle indispensabili per l’acquisizione della forza fisica che Ueshiba praticava nei monti della regione di Kumano. Sono le pratiche legate alle abluzioni in acqua ghiacciata da effettuarsi sotto il salto di gelide cascate di montagna.
Rimanere sotto una cascata d’acqua, preferibilmente fra le due e le tre di notte e durante il periodo invernale, era considerato un metodo infallibile per acquisire forza. Si tratta del misogi (禊), uno dei riti di purificazione fondamentali dello Shintō.
In mancanza di una cascata nelle vicinanze, si pratica il mizugori (水垢離), che consiste nel gettarsi addosso secchiate di acqua fredda .
Un’idea molto importante dello Shintō è che rafforzare il corpo purifichi la mente. Molte pratiche che sembrerebbero autodistruttive sono espressioni di questa credenza. Gli asceti della montagna dello shugendō si dedicavano a questa pratica oltre a esercizi ascetici occulti per ottenere poteri sovrumani sugli spiriti.
Sia Deguchi che Ueshiba intraprendono nel corso della loro vita, ritiri ascetici nelle montagne e la pratica di misogi ricopre un ruolo fondamentale nella loro educazione spirituale.
Il mondo ascetico attinge inoltre fortemente dalle formule magiche (mantra) del buddhismo esoterico, e alle antiche concezioni cosmogoniche dei suoni occulti (kotodama). La recitazione di certi suoni contenenti poteri magici può guarire malati, allontanare i demoni, procurare la pioggia, o far concepire bambini.
Inoltre se recitate per lunghi periodi in condizioni ascetiche di purificazione con digiuni o acqua fredda, le stesse parole possono dare forza alla persona che le pronuncia.
Il secondo capitolo indaga la storia delle arti marziali e la figura del samurai; i termini usati per indicare le arti del combattimento, bugei (武芸) arte della guerra e bujutsu (武術), tecniche di guerra, hanno una storia lunga che accompagna tutta la storia del Giappone; le arti marziali giapponesi conosciute come budō (武道) sono invece un’invenzione moderna.
Solo di recente, un approccio più scientifico al problema ha permesso di mettere a nudo le approssimazioni e le forzature che i primi interpreti occidentali della cultura giapponese hanno elaborato basandosi su pregiudizi inconsapevoli e informazioni indirette e falsate.
Un caso esemplare riguarda il kyūdō (弓道), l’arte del tiro con l’arco, resa popolare in Occidente da Eugen Herrigel, trattato nel paragrafo 4 del secondo capitolo.
In generale, l’evoluzione delle arti marziali in Giappone è caratterizzata da una relazione a volte piuttosto stretta con i luoghi del culto che costituivano le sedi dove i praticanti esercitavano le loro arti. Molte di quelle più antiche evidenziano, nel loro sviluppo, collegamenti diretti con un particolare tempio buddhista o shintoista, o legami espliciti con un kami particolare.
Questa circostanza pone in evidenza la connessione fra piano spirituale e pratica fisica.
Una delle prime ryūha (流派) scuole di tecniche marziali, fu fondata nel tardo XV secolo presso il Gran Tempio di Kashima: la Kashima Shinryū, è infatti una delle prime organizzazioni di allenamento per samurai.
Testimonianze relative all’importanza nelle pratiche marziali dello sviluppo delle capacità di concentrazione, che focalizzano l’energia del combattente nell’atto dello scontro, si trovano inoltre negli scritti di Sōhō Takuan (1573-1645, oltre che ne Il Libro dei Cinque Anelli di Miyamoto Musashi (1584-1645) che risale alla stessa epoca.
La forma moderna delle arti marziali giapponesi, budō è stata fortemente influenzata dal Kōdōkan jūdō: mantenere riferimenti agli aspetti di autocontrollo e di educazione delle emozioni come elementi altrettanto importanti quanto l’abilità tecnica.. Da una parte si introducono elementi attuali come la ricerca scientifica applicata alla tecnica, il sistema dan kyū, la didattica basata sull’analisi dettagliata dei movimenti e l’enfasi sul carattere formativo; dall’altra il budō segue le tracce delle antiche arti marziali su cui indiscutibilmente si basa.
La concezione di Kanō non era né strettamente nazionalistica né socialmente conservatrice. Kanō promosse anche lo sviluppo degli sport occidentali e mandò il suo migliore allievo in America a insegnare il jūdō; inoltre aprì la pratica della disciplina anche alle donne. Tuttavia il budō venne usato dai nazionalisti in funzione di propaganda e associato al militarismo giapponese; dagli anni Venti fino alla Guerra con la Cina nel 1937 e alla Seconda Guerra Mondiale (1941-45) per favorire la mobilitazione bellica. I valori morali promossi dal Gakkō budō (学校武道) vennero identificati con la devozione allo Stato, secondo lo spirito marziale dell’imperatore Kanmu fondatore di Heian Kyō (774 d.C), come elemente fondante del wakon (和魂), il puro spirito giapponese.
Tra gli anni Trenta e Quaranta gli sport occidentali venivano scoraggiati mentre si promuoveva una concezione nazionalistica del budō che aveva una storia antica e incorporava il wakon. L’enfasi espressa da Kanō sulla modernità e discontinuità del jūdō rispetto alla tradizione svaniva. Gli sport occidentali come tutta la cultura occidentale erano basati sull’individualismo e sul liberalismo mentre gli sport nazionali erano considerati tesori culturali. Fu sviluppata la visione nazionalistica, wakon yōsai (和魂洋裁), spirito giapponese opposto alla tecnica occidentale.
Dopo il 1945 tutte le arti marziali, e in particolare il kendō, furono proibite in Giappone dalle autorità d’occupazione americana. Al posto del kendō furono inventate delle versioni sportive come lo shinai kyōgi (竹刀教義) e tutti gli altri budō dovettero essere trasformati in discipline solo sportive.
Solo nel 1950 la All-Japan Jūdō Federation e la Japan Kyūdō Federation poterono essere riorganizzate e nel 1956 si tenne a Tokyo il primo World Jūdō Championship e nel 1964 quando Tokyo ospita i Giochi Olimpici, il Jūdō fu accettato come sport olimpico, evolvendosi verso una dimensione più agonistica e sportiva.
Invece, come riporta Ueshiba Kisshōmaru:
L’aikidō si rifiuta di divenire uno sport competitivo e rigetta tutte le forme di competitività o gare. Questi aspetti sono visti solo come carburante per l’egoismo, l’egocentrismo e il disinteresse verso gli altri. La gente è molto attirata dagli sport combattivi - ognuno vuol essere vincitore - ma non c’è nulla di più nocivo per il budō […]. L’aikidō traccia una chiara e netta linea di demarcazione su questo modo di pensare, e la ragione è estremamente chiara: l’aikidō aspira a mantenere l’integrità del budō e a trasmettere lo spirito delle arti marziali tradizionali, rimanendo fedele al fondamentale principio del budō, come enunciato dal maestro Ueshiba: il costante allenamento della mente e del corpo costituisce la disciplina base di coloro che intendono seguire un cammino spirituale.
Nell’aikidō pertanto, il combattimento acquista un significato nuovo: è ritualizzato, non prevede vincitori o sconfitti. Viene abolita la competizione ed enfatizzata la partecipazione di entrambi i “contendenti” a un sistema di valori condiviso. I ruoli di aggressore e aggredito vengono scambiati secondo una sequenza convenzionale. Le sequenze di azione e risposta sono prestabilite e note ad entrambi i contendenti (o “attori”). Le altre arti marziali invece tendono a “stilizzare” le antiche arti di combattimento, trasformandole in modo che non provochino danni irreparabili, mantenendo vivo però l’aspetto guerresco/agonistico. Si sostituisce l’uccisione dell’avversario con una vittoria di tipo sportivo ma c’è comunque un vincitore e uno sconfitto.
Ueshiba Morihei elabora gli aspetti tecnici di quello che diventerà l’aikidō, a partire dalla tradizione del bujutsu e in particolare influenzato dalla scuola Daitoryū del Maestro Takeda Sokaku.
Il terzo capitolo è interamente dedicato alla storia dell’Ōmotokyō; un’organizzazione religiosa relativamente piccola ma stabile che consta di circa 165mila aderenti ufficiali. Il gruppo ha un grande centro amministrativo a Kameoka e sede di culto ad Ayabe. Reverendi laici amministrano le necessità dei membri tramite riti legati al culto degli antenati, cerimonie di purificazione e guarigione, preghiere di gruppo e meditazione. Ogni anno ad Ayabe si tengono parecchi festival che attirano migliaia di seguaci da tutto il Giappone. Il gruppo pone molta enfasi sul praticare e preservare le arti giapponesi come la cerimonia del tè, il teatro nō, la calligrafia, la ceramica e l’aikidō. Diversamente da altre nuove religioni, l’Ōmotokyō non fa proseliti e partecipa ad attività pacifiste nel mondo tramite la partecipazione attiva a movimenti ecumenici internazionali.
Gli scritti di Deguchi Nao ci permettono di capire le aspirazioni e le preoccupazioni di una donna Meiji in lotta per dare un senso alle sue sofferenze e per risolvere ciò che percepiva come la crisi principale nei problemi umani contemporenei.
I principali obiettivi del co-fondatore Onisaburō sono soprattutto collegati alla promozione di attività interreligiose e di cooperazione fra le diverse fedi, secondo i principi del Bankyō dōkon: (tutte le religioni hanno la stessa radice). Oltre al movimento interreligioso, esistono altri campi di attività che mantengono legami con l’Ōmotokyō.
Uno di questi è l’Aikidō, l’arte marziale che vede il suo scopo nell’incontro armonico delle forze opposte. Nel 1926 Onisaburō diede la propria benedizione allo sviluppo dell’aikidō, considerato la via dello “spirito dell’amore divino”, 愛気.
Ancora oggi all’interno dell’Ōmoto viene praticata una variante dell’aikidō chiamata Shinwa Taidō (親和体道), che consiste in una forma di meditazione attraverso l’azione del corpo. Fu il nipote e discepolo di Ueshiba Morihei, Inoue Hōken (1902-1994), anch’egli seguace dell’Ōmoto, a dissociarsi dallo zio e a fondare questa sua personale interpretazione dell’arte marziale. Gli esercizi finiscono con la preghiera shintō: “Che io possa crescere secondo la volontà di dio”.
Un altro campo a cui si interessò il fondatore fu l’esperanto. Nel 1923 organizzò dei corsi per l’apprendimento di questa lingua universale, attraverso la quale intendeva diffondere la parola di dio, l’amore e la fratellanza. L’esperanto viene assunto come la seconda lingua dell’Ōmoto.
Questo aspetto è piuttosto inusuale: le scuole del XIX secolo difficilmente escono dai confini del Giappone; nel 1925 Onisaburō fonda la Jinrui Aizenkai (人類 愛善会, l’associazione per l’amore e la fratellanza universale) che può essere considerato il ramo secolare dell’Ōmoto. Questa associazione si dedica a varie attività umanitarie, ed è ancora oggi assiduamente impegnata nella campagna contro la pena di morte.
Nel quarto capitolo vengono esaminati gli aspetti legati alle fasi di evoluzione dell’aikidō e il significato dei caratteri che compongono il suo nome.
Approfondendo le caratteristiche dell’aikidō attraverso gli scritti del fondatore e gli aspetti rituali legati alla pratica, non mancano gli elementi per affermare che l’aikidō si presta a essere identificato e vissuto come religione, anche se inconsapevolmente, perché può diventare un’esperienza di fede, come l’esperienza religiosa.
Grazie alla guida di un kami che gli rivelava le leggi fondamentali dell’universo, Ueshiba è stato scelto come strumento per propagare l’aikidō sulla terra.
Secondo le parole di Ueshiba stesso confermate da Onisaburō Deguchi, l’aikidō diventa un mezzo per avvicinarsi al divino.
La natura religiosa del rituale dell’aikidō traspare per il fatto che si rende necessaria la presenza di un maestro che più o meno direttamente è riconducibile al fondatore stesso, e quindi al kami che lo ha ispirato. Il fatto di rispettare questi rituali rende il praticante partecipe di questa attività indipendentemente da quale sia il suo credo religioso.
Anche l’aikidō ha il suo piccolo luogo di culto nella cittadina di Iwama, prefettura di Ibaraki. Si tratta dell’Aiki Jinja, un santuario shintoista edificato da Ueshiba nel 1960 a simboleggiare il suo credo nell’aikidō come disciplina spirituale. Ogni anno il 29 aprile si tiene una cerimonia presieduta da un sacerdote Ōmoto. La data coincide con il compleanno dell’ultimo imperatore Shōwa, festa nazionale, anche in commemorazione della morte del fondatore il 26 aprile 1969.
Anche se nella situazione attuale sia in Giappone che in Occidente gli aspetti più spirituali dell’aikidō sono vissuti in modo sfumato e secondario dai praticanti, tuttavia l’importanza fondamentale dell’aspetto religioso risulta chiara e ben strutturata.
Ai 合 Ki 気 Dō 道
L’aikidō (合気道)
La struttura essenziale della disciplina marziale e spirituale messa a punto da Ueshiba Morihei attraverso un percorso di elaborazione personale che dura decenni, può essere analizzata a partire dal nome stesso: aikidō che in giapponese è composto dai tre ideogrammi: ai (合) che significa unione, ki (気) energia e dō (道) - la via.
L’armonia, ai – 合
Il fondatore dell’aikidō nei suoi ultimi anni cominciò ad associare l’ai (合) di aikidō, armonia, all’ai (愛) di amore. Dalla pratica di uno deriva l’altro.
L’enfasi sull’armonia dell’aikidō richiama senz’altro la posizione pacifista di Onisaburō. L’aspetto più importante è che si venga a creare una totale assimilazione (unione) con il partner, piuttosto che proiettarlo o immobilizzarlo. Dal punto di vista tecnico, ciò implica che occorre trattare con cortesia e attenzione le braccia e il corpo del compagno, come se fossero la propria spada o la propria lancia (similmente a ciò che rappresenta il pennello per un pittore o un calligrafo oppure il proprio strumento per un musicista ).
Grazie a questo metodo di pratica, che a prima vista si discosta dai metodi delle altre forme di budō, è possibile sviluppare un tipo di allenamento di base che permette di affinare il principio dell’animo che non si confronta, e di effettuare il controllo dei propri sensi. La seguente citazione tratta dai discorsi di Ueshiba Morihei, chiarisce il punto di vista del fondatore:
L’amore non è lotta.
Ai (amore) non è lotta. Nell’amore non ci sono nemici. Colui che pensa di un altro che sia “il nemico”, colui che sta sempre lottando con qualcuno, è fin dall’inizio lontano dallo spirito/mente dell’Universo. Le persone che non riescono a raggiungere l’unione con lo spirito/mente universale non potranno mai ottenere l’armonia con i movimenti dell’Universo. Se non fosse così, lo sforzo marziale di ogni persona non sarebbe il vero bu, ma piuttosto il bu della distruzione.[1]
L’energia, ki – 気
Se armonizziamo i nostri movimenti al flusso dei sensi ottenuto mediante gli esercizi di respirazione, la nostra pratica diventa un metodo avanzato del “fluire del ki”.
Ogni individuo è dotato di una particolare fonte di energia, in giapponese ki, che deve poter scorrere liberamente nel corpo, senza incontrare blocchi muscolari che ne impediscano il flusso. Attraverso la pratica dell’aikidō l’individuo impara a utilizzare correttamente questa energia che gli permette di sciogliere i legami di dipendenza con il mondo esteriore per riavvicinarsi alla propria natura interiore.
Bisogna concentrarsi sul centro in cui si sviluppa tale energia, il ventre (hara, 腹). Tramite la respirazione (kokyū, 呼吸), l’allievo impara a entrare meglio in contatto con i propri desideri più profondi e con le proprie difficoltà interiori. Quando il corpo sarà libero da blocchi, allora il ki ben sviluppato nell’addome potrà diffondersi in tutto il corpo, permettendo la giusta esecuzione delle tecniche. Nell’aikidō il ki si armonizzerà con quello dell’avversario.
Il ki è inteso sia in senso fisico, sia psicologico ed è quindi l’energia psicofisica.
Il ki, il principio unificatore di tutti i fenomeni energetici è stato analizzato dallo psichiatra Doi Takeo nelle sue combinazioni idiomatiche, non esistendo un termine corrispondente nelle lingue occidentali che ne riassumesse tutte le sfaccettature. Doi afferma che per quanto diverse siano le persone, il ki che opera in ciascuna sembra seguire lo stesso principio.[2]
Numerosi aggettivi quali: colpevole, capriccioso, strano, pazzo, irritabile, geniale, generoso, franco, brillante, ragionevole, ecc., possono essere resi in giapponese con espressioni idiomatiche in cui la parola chiave è ki:
Ki potrebbe indicare principalmente funzioni della sfera emotiva, ma in alcuni casi si riferisce alla capacità di giudizio, alla coscienza o alla volontà.[3]
Mentre in Europa noi distinguiamo con diversi termini emozione, consapevolezza, volontà, coscienza e così via, in Giappone tali termini possono essere resi tutti con ki;[4] ki traduce quindi sia i moti del corpo che quelli della mente.
Dopo queste considerazioni, Doi Takeo analizza l’uso di ki in rapporto alle parti anatomiche che, nella consapevolezza giapponese, esperiscono i differenti moti interiori: la testa, atama (頭), il cuore, kokoro (心) e il ventre, hara (腹). Atama si riferisce alla capacità o all’atto di pensare: anche in occidente, la funzione della coscienza è sempre stata intuitivamente collocata nella testa. Kokoro indica la capacità di provare emozioni dinanzi a qualcosa, o è metafora dell’emozione stessa. Anche nella nostra lingua l’emozione è associata al cuore, sede eletta del sentimento.
Helen Hardacre spiega che la parola kokoro comprende il concetto di cuore negli aspetti legati a mente, volontà ed emozione. [5] Il kokoro non è però semplicemente la somma in astratto delle tre cose; esso cambia da persona a persona a seconda dei tratti della propria personalità, disposizioni e sensibilità estetiche. Quando i giapponesi distinguono spirito (seishin, 精神) e carne (nikutai, 肉体) kokoro è associato allo spirito. Il kokoro include l’anima (tamashii, 魂) ma non è identico ad essa. Dopo la morte l’anima tamashii continua ad esistere mentre il cuore kokoro no.
Hara è il ventre: “proprio come il ventre è luogo del corpo in cui si accumula il cibo, così il termine che lo designa è usato metaforicamente per indicare il sé in quanto accumulo o compendio delle esperienze individuali”. Lo stesso punto, importante per l’equilibrio nelle arti marziali, è detto tanden (丹田); tramite questo centro una persona stabilisce contatto con il terreno sotto e con il cielo sopra.
Il concetto di ki è di origine cinese, il termine corrispondente è qi. Il qi è anche il principio metafisico per alcune scuole di pensiero cinesi: può essere per esempio il principio essenziale dell’armonia fra yin e yang (Laozi), la essenziale pienezza della vita (Huai nan zi), il coraggio che nasce dalla rettitudine morale (Mengzi), la forza divina che penetra tutte le cose (Zhuang zi).
Questa interpretazione metafisica del qi fu introdotta in Giappone nei periodi Nara (710-784) ed Heian (794-1185), dove si combinò con le credenze popolari locali: il ki era la forza responsabile del processo ciclico di crescita, sviluppo, fioritura di alberi e piante. Dal periodo Kamakura (1185-1333) si intese il ki in rapporto alle qualità richieste al guerriero: audacia, shi ki (志気), potere della volontà, i ki (意気), vigore, gen ki (元気), coraggio, yū ki (勇気).[6]
Le arti marziali giapponesi hanno sempre dedicato molta attenzione allo sviluppo dell’energia, considerata come una fonte di forza superiore alla potenza muscolare, (chikara, 力). L’origine dell’energia è nel ventre, hara: “questi due concetti, hara come centralizzazione e integrazione e ki come energia centralizzata estesa, trovarono la loro espressione più vera nell’arte conosciuta in Giappone con il nome di haragei (腹芸) l’arte dell’intuizione: la sua teoria e la sua pratica, a loro volta, vennero utilizzate nel tentativo di superare i complessi problemi dell’esistenza”.[7]
Nella cultura giapponese si ritiene che lo hara sia il centro in cui si sviluppa il ki, che può fluire libero nel corpo se non sono presenti le tensioni. Spiegano infatti H. Reid e M. Croucher:
È importante sottolineare che i maestri di Okinawa, come i loro colleghi cinesi, hanno capito che per ottenere la massima efficacia nei colpi e nelle parate, questi devono essere permeati dell’energia che proviene dalla zona sotto l’ombelico, nota come tanden. Quest’area, che coincide con il baricentro del corpo umano, è il centro del ki (forza vitale), come ben sanno gli agopuntori e i guerrieri dell’Asia orientale, sia i praticanti di arti marziali. È da questo punto che il ki fluisce in tutto il corpo. Quando i maestri di karate dicono che tutte le tecniche con le mani hanno origine dalla rotazione dell’anca e che questa rotazione aumenta la forza del colpo, hanno assolutamente ragione.[8]
E così anche l’insegnamento di Tokitsu Kenji:
Si pensa spesso di abbassare il centro di gravità assumendo una postura bassa. Non è solamente abbassando il bacino che il proprio centro di gravità scende. Se il ventre non è pieno, questo tipo di stabilità apparente non funziona: in senso fisico, il centro di gravità è basso, ma il centro del corpo resta a livello della testa. Per orientare questi esercizi si dice in giapponese: ‘Pensa con il ventrÈ. Il corpo deve aderire al suolo come quello di un bambino addormentato che sembra molto pesante.[9]
Ritornando a Doi:
A giudicare dal modo in cui è usato, ki potrebbe essere definito con maggiore precisione come il movimento dello spirito da un istante all’altro. In altre parole, mentre atama, kokoro e hara indicano le sedi in cui si compiono le varie funzioni mentali e ciò che sta dietro il fenomeno, ki indica l’operazione in sé..[10]
Lo psichiatra analizza poi alcune espressioni particolari come ad esempio ki wa kokoro (気は心), il ki è il cuore: ogni manifestazione del ki è espressione del proprio essere. Si noti a questo proposito come nella psicologia somatica ogni moto espressivo del paziente venga considerato significativo perché rivelatore della sua realtà interiore. Ki ga shizumu (気が沈む), essere depressi, letteralmente significa “il ki affonda”. L’espressione evidenzia l’incapacità di rispondere in modo appropriato all’ambiente per mancanza di energia. Da che cosa è mosso dunque il ki? Esso è mosso dalla ricerca del piacere, al servizio del Sé:
in altre parole tutti cercano sostanzialmente qualcosa che sia in armonia con il Sé [...] Se ora prendiamo in considerazione tutte le attività del ki, possiamo concludere che esso è costantemente teso alla ricerca del piacere. E proprio questo è il principio dell’attività mentale manifestato dal ki.[11]
Con la trasformazione di bujutsu in budō, ci fu una rivalutazione del concetto di ki come forza spirituale, come energia dell’universo, come principio unificatore di yin e yang. Per esempio in un’opera della scuola di Kitō, importante testo di jūjutsu classico molto vicino al jūdō e all’aikidō, troviamo le seguenti frasi prese dal Densho Chusaku, “Kitō significa sorgere e cadere. Sorgere nella forma yang e cadere nella forma yin. Quando il nemico mostra yin, vinci con yang. Quando il nemico è yang, vinci con yin. Rendere la mente potente, utilizzando il ritmo mediante tecniche piene di forza e cedevolezza è prova di maestria. Abbandonare la propria forza e vincere usando la forza del nemico è reso possibile dal ki, come insegnato nella nostra scuola. Abbandonando la forza, si ritorna al principio fondamentale. Se non si fa assegnamento sulla forza ma si usa il ki, la forza del nemico gli si ritorcerà ed egli cadrà da solo. Questo è il significato del vincere usando la forza del nemico. Si deve riflettere attentamente su questo. In breve, il debole prevale sul forte”.[12]
L’idea che l’energia individuale sia presente e componga tutta la materia cosmica, e che sia possibile un’armonizzazione di se stessi con l’universo, è proprio l’intuitiva veduta di Ueshiba, influenzato dalla dottrina di Onisaburō: “Attraverso il budō ho esercitato il mio corpo completamente e ho padroneggiato i suoi segreti ultimi, ma ho anche realizzato una verità più grande. Si tratta di questo: quando ho compreso attraverso il budō la reale natura dell’universo, ho visto chiaramente che gli esseri umani devono unire mente e corpo, il ki allora unirà ambedue e quindi l’armonizzerà con l’universo. Grazie alla sottile azione del ki noi possiamo armonizzare sia la mente e il corpo che il rapporto fra l’individuo e l’universo. Quando la sottile azione del ki si guasta il mondo cade nella confusione e l’universo nel caos. L’armonia dell’assieme ki-mente-corpo (気 心 体) con l’attività dell’universo è critica per l’ordine e la pace nel mondo”.[13]
In realtà di questo parla già la medicina cinese tradizionale ed è la base della cosmologia della scuola di spada Kashima Shinryū:
All natural phenomena are composed of varying combinations of matter and energy. These combinations continuously come into existence and disintegrate into their constituent parts, whereupon the parts recombine to produce new phenomena. Matter can be converted to energy and energy to matter, but neither can be destroyedoutright; the sum of all energy and matter has remained constant since the universe itself came into being. Thus matter and energy, the primal stuff of the cosmos, are eternal – without beginning or end – and in this sense the myriad phenomena that result from their combination are also without beginning or end. [14]
La cosmologia della scuola Kashima Shinryū esprime questo continuo integrarsi, disintegrarsi e reintegrarsi della sostanza insita della realtà nel motto:
“Arise, return to source, go forth” [15] (hakken 発見, kangen 還元, suishin 推進).
Questa è la legge o il ritmo attraverso il quale tutti i fenomeni si manifestano. In termini di confluenza degli opposti richiama la dottrina cinese di yin e yang, che rappresenta simbolicamente la realtà nei termini di una coppia di principi o forze agli antipodi: yin, (giapp. in 陰) che rappresenta la negatività, l’oscurità, la debolezza, la passività, la distruzione, le cose nascoste o il femminile; e yang, (giapp. yō 陽) che rappresenta la positività, la luce, la forza, l’attività, la creazione, le cose visibili o il maschile. Scritti con caratteri che rappresentano le parti ombreggiate e assolate di una collina, yin e yang non sono concepiti in opposizione ma sono complementari. Essi sono incessantemente interattivi.
Il modo in cui yin e yang interagiscono permea l’arte del combattimento, bugei. La mente o la volontà (yin) si fonde con la spada (yang) attraverso il mezzo del corpo (yin e yang sono uno). La stessa idea è descritta come “Spada, mente e corpo come trinità” (ken shin tai sanmi ittai, 剣 心 体 三位一体).[16]
Le arti marziali insegnano che è il respiro (kokyū 呼吸) ciò che unisce la mente e il corpo. “Corpo-respiro-mente. Questa triade fondamentale compare in ogni insegnamento sulla spiritualità e sulle arti marziali, e si rifà a determinate leggi universali. Si riferisce strettamente a tre principi (testa-cuore-ventre) ma sottolinea il gioco dinamico reciproco tra questi tre e descrive la natura del processo creativo in tutti gli aspetti della vita. Corpo, respiro, mente, sono tre forme di energia che coesistono nella persona e nel suo universo”.[17]
Così si esprime Ueshiba Morihei:
La sottile azione del ki è la fonte materna del delicato cambiamento della respirazione. È anche la sorgente dell’arte marziale come vero amore. Quando si uniscono mente e corpo attraverso la virtù del ki e si manifesta ai ki (armonia del ki), si verificano spontaneamente delicati cambiamenti nella forza del respiro e i waza, giuste tecniche (技) scorrono liberamente. Il cambiamento della respirazione, legato al ki dell’universo, interagisce e compenetra tutta la vita. Nello stesso tempo la delicata forza del respiro entra in tutti gli angoli del corpo. Penetrando in profondità, lo riempie di vitalità producendo numerosi, dinamici, spontanei movimenti. In questo modo l’intero corpo, compresi gli organi interni, si riempie di calore, leggerezza e forza. Dopo aver realizzato l’unione della mente e del corpo, essendo in sintonia con l’universo, il corpo si muove senza offrire alcuna resistenza alle proprie intenzioni. [18]
Sempre a proposito del ki Ueshiba Morihei precisa:
È la ricerca sul ki ciò che rende le arti marziali delle “vie di crescita”. Nelle arti marziali la ricerca arriva in profondità, tocca il punto della vita e della morte, del dolore e dei propri scogli psicofisici. L’aikidō traccia una chiara e netta linea di demarcazione su questo modo di pensare, e la ragione è estremamente chiara: l’aikidō aspira a mantenere l’integrità del budō e a trasmettere lo spirito delle arti marziali tradizionali, rimanendo fedele al primo principio del budō, come enunciato dal maestro Ueshiba: il costante allenamento della mente e del corpo come disciplina base di coloro che intendono seguire un cammino spirituale.[19]
La via, dō – 道
Il concetto che i giapponesi esprimono con i termini dō o michi, la via, si basa sul concetto del Dao arrivato in Giappone dalla Cina. Il significato originario cinese, andò modificandosi sia a contatto con le credenze autoctone giapponesi, sia per esigenze sociali e politiche della classe egemone, che sintetizzò dagli elementi cinesi un modello di pensiero compatibile con la società feudale giapponese.
Accanto all’essenza filosofica ed etica del dō, si possono trovare elementi religiosi, sebbene il dō non costituisca di per sé una religione.
Il Dao, come dō fu inteso dai giapponesi come “la via”, o “la strada” da seguire nella vita. Questa via è infinita e profonda. È lunga, ripida, e piena di numerose difficoltà. Deve quindi essere percorsa come un mezzo di auto-educazione che porterà alla fine all’auto-perfezione.
Il concetto di dō è versatile. Prende la forma di una gran varietà di discipline pratiche, strettamente associate alla vita giapponese. Tutte queste discipline sono sfide finalizzate al raggiungimento di un migliore modo di vita, e sono basate sulla convinzione che un uomo non è un essere completo se non ha fatto sufficiente esperienza di dō.[20]
L’ideogramma antico sembra fosse composto dall’immagine grafica di tre idee: una strada, la testa di un maestro, i piedi di un altro uomo, colui che segue il maestro lungo la via, il discepolo. E questa “via” è un processo o legge immanente di un principio che dai daoisti viene indicato come Dao, grazie alla cui comprensione si raggiunge la salvezza, mentre nel confucianesimo maggior rilievo viene dato al manifestarsi concreto del Principio supremo, quindi alle leggi sociali cui i governanti si devono attenere per restare in armonia con l’universo. Nel periodo Tokugawa la classe militare aveva sposato l’etica confuciana, sottolineando i doveri nei confronti della struttura statale, in accordo con le credenze shintoiste che richiedevano una cieca fedeltà al proprio dovere militare. L’idea di dō riflette le antitetiche concezioni cinesi riguardo al dao, il principio assoluto generatore del mondo, la via. Essa per i confuciani aveva il carattere di immutabilità, costanza, permanenza; al contrario il Daodejing, un classico del pensiero daoista, comincia proprio con queste parole: “Il Dao che può essere detto non è l’eterno Dao” [21]
Il concetto di via nelle arti marziali sottende l’idea di cambiamento, che coinvolge tanto l’idea stessa di via quanto di colui che la percorre. La via delle arti marziali, proponendosi come fine la trasformazione dei suoi adepti, oltreché la loro formazione professionale, acquista quindi un notevole valore pedagogico.
L’insegnamento delle arti marziali ha un potenziale formativo che non può essere comunicato a parole perché ciò che realmente trasforma è il tipo di esperienza che ognuno deve compiere su di sé attraverso la pratica.
Secondo Simone Dalla Chiesa, la traduzione appropriata alla parola dō, sarebbe “arte”, percorso che permette di arrivare a un’esperienza fuori dall’ordinario. Questo vale per le arti marziali (budō), ma anche per la calligrafia (shodō) o la cerimonia del tè (chadō) e l’arte di disporre i fiori o ikebana (kadō).
Imparando una sequenza di movimenti formalizzati e simulando un combattimento, ci si comporta al tempo stesso in modo naturale (automatico) e anche rituale (formale). Chi pratica un’arte marziale ripete i gesti del fondatore e cerca di immedesimarsi in lui. Dato che il fondatore è idealizzato, il praticante ha un collegamento di tipo spirituale col fondatore e quindi con la divinità.
Mentre al fedele di una religione è richiesta solo adesione ideale e nessun tipo di costante allenamento fisico specifico, il praticante di dō raggiunge la possibilità dell’esperienza mistica solo attraverso un duro allenamento fisico. Nelle religioni tradizionali al fedele non è mai richiesta una “performance” che necessiti di allenamento e dedizione costante.[22]
Note:
[1] http://www.aikikai.it/
[2] DOI, Takeo, L’Anatomia della dipendenza. Un’interpretazione del comportamento sociale dei giapponesi, Milano, Cortina, 1991. p.101.
[3] Ibidem . p. 98-99.
[4] Le traduzioni specifiche dei suddetti termini, rispettivamente kanjō (感情), ishiki (意識), ishi (意思), ryōshin (良心), sono state introdotte nella lingua per rendere i differenziati concetti europei
[5] HARDACRE, Helen, Kurozumikyō and the New Religions of Japan, Princeton, Princeton UP, 1986
[6] UESHIBA, Kisshōmaru, Lo Spirito dell’Aikidō, Roma, Ed. Mediterranee, 1992. p.24-26
[7] WESTBROOK e RATTI, I segreti dei samurai…, op. cit., p. 406
[8] REID, Howard & CROUCHER, Michael, La Via delle Arti Marziali. Il controllo della mente e del corpo nelle arti orientali di combattimento, Como, RED edizioni, 1996, p.199
[9] TOKITSU, Kenji, L’arte del combattere, Milano, Luni, 1993, p.51
[10] DOI, L’Anatomia della dipendenza…, op. cit., p.100
[11] Ibidem p. 101.
[12] UESHIBA, K., Lo Spirito …, op. cit., pp 26-27.
[13] Ueshiba M. citato in UESHIBA, K., Lo Spirito …, op. cit., p 28. (si veda APPENDICE : “La sottile funzione del KI” testo di Ueshiba da http://www.aikikai.it/)
[14] FRIDAY, Karl, (with Seki Humitake) Legacies of the Sword. The Kashima Shinryū & Samurai Martial Culture, Honolulu, University of Hawaii Press, 1997, pp.67-68
[15] Ibidem p. 68
[16] Ibidem p. 69
[17] PAYNE, Peter, Arti Marziali. La Dimensione spirituale, Milano, Fabbri, 1982, p.35
[18] Ueshiba M. citato in UESHIBA, K., Lo Spirito …, op. cit., p 28
[19] Ibidem p.19
[20] DRAEGER, Donn F., Classical Budō. The Martial Arts and Ways of Japan – Vol. 2. p.24
[21] LAOZI, traduzione di Tomassini e Panciotti per TAO, i grandi testi, Torino, UTET, 1977.
[22] DALLA CHIESA, Simone, Antropologia dei Dō. Gestualità e tradizione, Quaderni Asiatici, Trimestrale edito dal Centro di Cultura Italia-Asia “G:Scalise”, Anno XV, n. 51, Milano, ottobre-dicembre 1999.